L'ultima
sera una luna generosa rischiarò a giorno il villaggio, come a voler regalare
altro tempo al commiato di Salif con la sua terra.
A
quell'ora in giro non c'era anima viva. Anche i suoi dormivano da un pezzo.
Solo Mira continuava a rigirarsi nel letto; per lei non doveva essere facile.
La aveva osservata a lungo mentre trafficava per la cucina con l'aria assorta.
Aveva seguito le sue piccole mani che si muovevano svelte tra le pentole,
intente a rimestare la loro ultima cena insieme per poi posarsi quiete sui
volti dei bambini in tenere carezze. Aveva sentito una fitta di gelosia,
ma era riuscito a resistere all'impeto
di volerla tutta per sé. Sapeva bene che la sua parte la avrebbe avuta a suo
tempo, nella segreta intimità del loro letto. Mira sapeva essere generosa come
nessun altra donna, era sicuro che quella sera avrebbe saputo consolarlo e
accollarsi un po' di pena per toglierla a lui. E così era stato.
La
notte era silenziosa, attraversata soltanto da qualche lieve refolo di vento e
dal latrato dei cani che si perdeva in fondo ai campi di sorgo. Quella quiete
gli entrò piano piano nella testa insieme alle sagome scure delle baracche e ai ciuffi d'erba rinsecchita che spuntavano
qua e là nel bel mezzo della strada: un quadro disadorno da appendere in un
luogo chissà dove a ricordo della sua terra. I volti di Mira e dei figli, al
contrario, se ne stavano chiusi al sicuro nel portafogli, a portata di mano per
i futuri momenti di nostalgia.
L'autobus
per Khartoum sarebbe partito all'alba. Quello da Kasala a Kufrah era il pezzo
di tragitto più semplice. Aveva raggranellato abbastanza denaro per assicurarsi
un buon pezzo di viaggio a basso rischio; le complicazioni sarebbero cominciate
a Kufrah, dove da semplice passeggero si sarebbe trasformato in clandestino,
pigiato in uno dei camioncini di derrate diretto a Ajdabiya. Da quel punto in poi il viaggio era tutto da
inventare.
Mancava
solo una manciata di ore all’alba. Salif voltò le spalle alla finestra e
cominciò ad ispezionare la piccola stanza avvolta nella penombra. I suoi occhi
si posarono sui contorni dei pochi mobili addossati alle pareti. A un certo
punto gli sembrò di scorgere qualcuno sul vecchio divano. Si avvicinò cauto,
tastò con la mano aperta i grossi cuscini sfondati al centro e capì che si era
sbagliato. Allora si sedette proprio nel mezzo, dove i bambini, stretti tra lui
e Mira, erano soliti cominciare baruffe tra strilli e risa, che finivano
immancabilmente con qualche ruvido scappellotto. Chiuse gli occhi per non farsi
scappare nulla dalla mente, mentre respirando profondamente si riempiva le
narici dell'odore della sua casa: profumo di spezie e di sapone da bucato,
misto all’odore di terra e di fumo che salivano dalla strada. Questo era tutto ciò
che desiderava portarsi appresso, insieme ai quattro indumenti piegati con cura
dalle piccole mani di Mira sul fondo di una valigia in finta pelle.
Gabriella Tessa è insegnante e vive a Giaveno.
Ha collaborato con la raccolta di racconti Venti di montagna, Echos edizioni
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