venerdì 31 luglio 2015

Leonardi legge la Divina Commedia

Niente TV stasera, niente musica, balli o sghignazzi, solo un uomo che parla. Davanti a lui un leggio, sul leggio un libro, o meglio, Il Libro: la Divina Commedia.
L’uomo cammina, gesticola e racconta; con la sua voce mille immagini raggiungono a folla radunata e la trasportano lontano, nell’Italia del Trecento. Gli alberi del parco municipale diventano una selva oscura, la lieve brezza è un turbine che trascina le anime condannate. Le lacrime di Francesca da Rimini, la pena di Dante, nel vedere umiliato il suo maestro Brunetto Latini, l’alterigia di Farinata degli Uberti, l’angoscia e l’odio del Conte Ugolino non sono soltanto letti e ascoltati, sono vissuti dal pubblico. 
Le duecento sedie non bastano, altri arrivano e si fermano in piedi, poi si siedono sull’erba, incapaci di allontanarsi dal semplice suono di una voce.
Adesso siamo giunti in fondo all’inferno; le orribili gambe pelose di Lucifero sono ripugnanti al tatto, e il sollievo è reale quando anche  noi usciamo a rivedere le stelle e gli sguardi si alzano sul cielo sopra di noi.
Due sere dopo cominciamo a salire, sulle cornici del Purgatorio. Questa volta, nei mirabili versi del Sommo Poeta, c’è la speranza: i condannati sanno che la loro pena non sarà eterna. Dante può permettersi divagazioni, il dolore è stemperato da quella fiduciosa attesa.
Ascoltiamo le gesta atroci e il pentimento di Bonconte da Montefeltro, ci commuoviamo per la delicatezza di Pia de’ Tolomei e per quel suo saluto umile eppure fiero. Leonardi riveste per un momento i panni del professore e ci spiega, con le parole di Dante, i primi passi del Dolce Stil Novo, di come la fama sia cosa effimera per ogni artista, anche per il più grande.
È un attimo: siamo già in cima al monte e Beatrice ci attende, con la sua dolcezza angelica.
«Sono certo che stasera correrete a cercare la vostra Divina Commedia, per rileggere i canti dall’inizio alla fine» conclude Leonardi.
Il professore è soddisfatto: il compito che si dato, di far conoscere a tutti la letteratura italiana e le sue meraviglie, per stasera è assolto. Il pubblico, invece, aspetta ancora. Per fortuna ci saranno altre occasioni: Edoardo Favaron, lo hai promesso!  

lunedì 27 luglio 2015

Calma effervescente, di Elena Mignola

Fuori il sole già caldo, l’aria fresca, i fiori con i loro profumi e io qui dentro, in piscina. Al mio ingresso in acqua ecco di nuovo quelle stupende sensazioni, quel corpo fluido che mi abbraccia e mi ristora. Giù gli occhialini e si riparte. Scelgo di nuotare a rana, il mio stile preferito, quello che fin da bambina pratico con naturalezza, un po’ come se l’avessi imparato in una vita precedente. Testa sott’acqua, disegno il primo cerchio con le braccia e con le gambe. Soffio con il naso e con la bocca in un respiro profondo capace di liberarmi da qualsiasi angoscia anche la più terribile. Osservo le tante bollicine argentate salire lente e confuse verso la superficie. Le mie braccia tirano l’acqua, le gambe la spingono con vigore in un movimento continuo e dolce. Tutti i suoni sono attutiti, alcuni riecheggiano come fossero nell’ovatta, senza infastidire. I miei gesti si ripetono e si ripetono, sempre uguali, ma non mi annoiano mai.  Ascolto con piacere il ritmo della mia nuotata, è musica per le mie orecchie. Volo leggera e senza fatica, l’acqua è ormai un’amica con la quale ho confidenza. Sento un grande senso di pace e tanta nuova energia crescere dentro di me, sono completamente appagata. Così io e il nuoto siamo uniti da un legame forte e spontaneo che immagino durare per sempre.


martedì 21 luglio 2015

I sorrisi di Yasir, di Elisa Bevilacqua

«Ciao, come va?»
«Bene, grazie Yasir. E tu? »
«Bene, grazie, bene, bene».
«E come stai?»
«Bene, Yasir, tutto bene, grazie. E tu, tu come stai? »
«Bene, grazie, bene, bene».
I nostri malconci inglesi non ci consentono conversazioni più ardite, così ci aggiustiamo con queste scarne frasi in italiano e ci spertichiamo in grandi sorrisi.
Tra l’altro, dal punto di vista linguistico, lui non ha torto: “come va” è diverso da “come stai”.
Se fosse per me, me lo abbraccerei tutto, questo ragazzone pakistano dal viso aperto e gioviale, mi farei strizzare, ma sono una donna e ho vent’anni più di lui, non so come la prenderebbe. Diamine, potrei essere sua madre!
Così ci limitiamo a grandi dispiegamenti e distensioni di labbra e a chiederci venticinque volte in un minuto come stai e come va.
Ma fa lo stesso. Perché l’importante è stabilire un contatto, e in questo gli occhi valgono molto, molto di più della voce.
Possiamo anche stare in silenzio e ci capiamo lo stesso.
Non so quasi nulla di lui, se non che ha ventitré anni, era un sarto, arriva da un villaggio di montagna del Pakistan e ora – dopo un terribile viaggio su un “barcone” dalla Libia – è su queste altre montagne, quelle che chiamiamo “nostre”, attendendo un futuro.
Per fortuna, mentre aspetta di conoscerlo, questo domani, ha incontrato più gente sorridente che persone che digrignano i denti o blaterano di ruspe, perché quando un altro essere umano lo guardi negli occhi e ascolti la sua storia, di parlare di ruspe e di espulsioni e di “quanto costa” te ne scordi.
Nel senso che proprio te lo dimentichi. Se hai un cuore, certo.
E lui sorride così bene. Potrebbe inventarsi un lavoro: docente di corso di sorrisi. Formatore in sorrisi. Personal coach di sorrisi. Trainer di sorrisi.
Io mi ci iscriverei, a un corso di sorrisi di Yasir.
Perché con tutto quello che deve aver visto, con il viaggio che ha fatto, con l’ostilità che pure ha incontrato, con l’assenza di notizie dai suoi famigliari, con una vita rivoltata come un calzino, ringrazia posando la mano sul cuore. E sorride.

E allora, c’è una sola, unica cosa da fare: restituire. 

giovedì 16 luglio 2015

Pulizie di primavera, di Sara Goria

«Era ora che dessimo una pulita al garage!» mormora il mio grillo parlante sollevandosi con la mano libera la vecchia tuta consumata.
Non sono che cianfrusaglie impolverate quelle che gettiamo dentro al grande sacco nero.
Ho assistito raramente alle partite di Marcello. Per quieto vivere si è sempre caricato la sacca in spalla, due sere a settimana, con la pioggia o col termostato sotto zero, per andare agli allenamenti e raramente si è lamentato. Il calcio è uno sport che non ho mai capito, comprese le grida dei genitori sugli spalti, che vedono in campo dei futuri Del Piero con tanto di uccellino sulla spalla e miliardi sul conto.
Quel modo gentile che ha tutt’ora mio figlio di non deludere il prossimo l’ha ereditato da sua nonna, non è sicuramente merito degli insegnamenti di un allenatore.
Oggi, per esempio, avrebbe potuto girarsi dall’altra parte e nascondersi sotto al piumone, invece ha infilato la vecchia tuta e mi ha raggiunto in garage.
«E se posizionassimo qui un fiammifero e fuggissimo?»
L’ironia, non per vantarmi, l’ha presa da me.
«Piazziamoci direttamente una bomba, Marci. Le cose o si fanno bene o non si fanno!»
«A che ora arriva la stordita? Potrebbe dare una mano anche lei, non ha nemmeno cambiato la sabbia del gatto stamattina».
A casa nostra, questo è motivo di discussione da anni.
Aurora, mia figlia, è il capro espiatorio di Marcello, colpevole per il solo fatto di essere nata dopo di lui. Di lacrime ne ha versate tante, Aurora, alcune vere altre di coccodrillo, sopportando per anni due genitori che si ostinavano a tenere in piedi un rapporto logorato e spento.
Pensavo di essere nel giusto, l’amore non le è mai mancato e, a un batter di ciglia, il mondo sì è sempre inchinato davanti alla principessa di casa. Ma a distanza di tempo mi rendo conto di quanto questo tira e molla abbia influito sui suoi stati d’animo.
«Raga, è mezz’ora che vi chiamo al cellulare, potevate dirmelo che eravate qua!»
Sentiamo il tonfo dello zaino su una scatola di cartone. Aurora sfila in fretta il braccialetto e lega i suoi lunghi capelli in uno chignon.
«Dai, questa me la ricordo! La mia casa di Hamtaro non si butta! Perché l’avete messa qui?»
Marcello passa la successiva mezz’ora a riaprire i sacchi neri e a convincerla che tutto non si può tenere.
«Sono vecchi oggetti, siamo noi a dare loro un inestimabile valore. Fidati, se sono rimasti qui per più di cinque anni significa che non ci servono!»
«Okay, ma la casa di Hamtaro…  Per quando avrò dei figli!»
«Prima dovresti imparare a tenerti un fidanzato per più di una settimana!» la istiga suo fratello.
Aurora sa che fine può fare una relazione, per questo si affeziona agli oggetti.
«Accidenti, va bene, teniamo la casetta!»
«E figurati se mamma non te la dava vinta!» Marcello le lancia addosso una pallina di plastica, che lei afferra al volo.
Con una vena nostalgica rovistiamo ancora, loro scoppiano a ridere più volte, per qualcosa che non tento neppure di comprendere.
Li osservo, soffio l’aria stantia per fare spazio ai pensieri: sono utile, ma non più indispensabile a questi due ranocchi che saltellano per il garage e mi riempiono di orgoglio.
E infine lo sento, so che sta per arrivare, è il momento della fatidica domanda:
https://ssl.gstatic.com/ui/v1/icons/mail/images/cleardot.gif«Quando si mangia, mamma?»

lunedì 13 luglio 2015

Il mio miglior nemico, di Andrea Bes

Legame, una parola dai mille significati, nel bene e nel male ma, parlando a titolo personale, questo termine assume un significato particolare. In certi casi ci si ritrova a vivere un tipo del tutto unico di legame, difficile da comprendere e da spiegare e del quale, onestamente, avrei fatto e farei volentieri a meno: il legame con una patologia.
Un vincolo costante e indissolubile dal quale non puoi liberarti.
È come essere legati a un mostro, subdolo e crudele, al quale non puoi opporti e che ha il controllo quasi totale su di te. Ti tiene unito a sé con catene; le muove a suo piacimento impedendoti di fare ciò che vuoi, confinando la tua libertà, ponendoti dei limiti. E superarli, certi limiti, a te costa una fatica immensa. Perché raggiungere anche un solo semplice obiettivo significa non avere più spazio ed energie per fare altro.
È una presenza talvolta snervante; t’impedisce di fare le cose più semplici così da mandarti su tutte le furie. Altre volte invece riesci in cose che, francamente, ritenevi impossibili, tanto da chiederti se questa sia una sua forma di sarcasmo volta a schernirti e a umiliarti.  Altre volte ancora ti serra le catene provocandoti dolori costanti, difficoltà nella respirazione e grande stanchezza… insomma, ti rovina proprio la giornata!
Non puoi liberartene ma non puoi nemmeno lasciarti sopraffare. È una continua battaglia tra due entità che lottano per avere la meglio, per annientarsi. Entrambe si osservano, si studiano e ponderano le mosse da fare. Però non c’è mai un vincitore, a regnare è l’equilibrio, precario instabile ma sempre tale.
Con il passare degli anni, lo so che può sembrarvi un controsenso, ti ci abitui a questo legame, o meglio, impari a conviverci tanto da riuscire a trarne anche lati positivi.  
In primo luogo crei altri legami, questa volta validi, con persone che, se inizialmente ti stanno vicino solo per aiutarti, dopo aver condiviso con te difficoltà, vittorie, paure e gioie creano un’amicizia molto forte e senza eguali. Impari a fidarti e a chiedere loro aiuto senza vergognarti perché, se il mostro è forte, con loro al tuo fianco tu lo sarai ancora di più. Hai bisogno del loro aiuto e forse, a tuo modo, anche tu sei di aiuto a loro.
Ma la cosa più importante è che questa presenza malvagia non riesce a fiaccare la tua volontà e a farti arrendere anzi, la voglia di avere la meglio su di essa ti sprona a superare le mille difficoltà che ti si presentano. Quelle che si frappongono tra la tua e una vita normale. Quando ti mette di fronte ad un ostacolo, ti adatti e lo superi, oppure lo aggiri ma comunque vai avanti, sempre pronto, se non si può fare altrimenti, a reinventarti e a ripartire da zero.
Insomma muti e ti adatti alla vita perché, come ha scritto Neil Marcus: 
La disabilità non è una coraggiosa lotta o il coraggio di affrontare le avversità. La disabilità è un'arte. È un modo ingegnoso di vivere.  

martedì 7 luglio 2015

Le parole ascoltate

Tutto iniziò con un tema: Legàmi, cosa rappresentano per voi?
Il Circolo fotografico Il Mascherone lo aveva scelto per la mostra fotografica di luglio, il consueto appuntamento con il pubblico di Giaveno.
Perché non allargarlo ai quadri, alle sculture, alla musica? Perché non estenderlo alla poesia e alla narrativa? La parola passa, si amplifica e si intensifica; raggiunge arti diverse, la danza, la manualità senza perdere significato, anzi, arricchendosi.
Io, da buona “maestra” (termine coniato da una mia “alunna” e subito trasformato in nomignolo), propongo a tutti gli autori di partecipare con uno scritto. 
«Elaborate il tema, date sfogo alla vostra immaginazione narrativa. Cosa sono per voi i Legami? Sensazioni positive e costruttive o schiavitù che costringono?»
Dapprima titubanti, poi via via più carichi d’energia, gli autori mi inviano i loro testi: comincia lo scambio di parole e di idee che porterà alla stesura di ben ventisette racconti.
Questi gli autori che hanno offerto la loro creazione: 

L’attesa si fa insistente, la rassegna sta per giungere al culmine. Tutti i collaboratori sono pronti: ed ecco, la data arriva.

Le autrici si preparano
Il 4 luglio alle ore 17, sulla rovente piazzetta della ex Anna Frank, i primi, temerari scrittori si avvicinano titubanti. Le porte della mostra di pittura sono spalancate e invitano a cercare un po’ di refrigerio all’interno. 
Roberta legge il suo racconto
La gente, col passare dei minuti, comincia ad affluire; osserva i dipinti e le sculture esposte, commenta, poi esce e si ferma incuriosita. Perché ci sono dei libri su quel tavolone vestito di bianco? Cosa ci fa in piedi quell’uomo con gli occhiali, e cosa mai starà leggendo?
Sergio Vigna
Claudio Rolando
Le sedie non bastano e occorre spargerne altre; i lettori si alternano e gli applausi fioccano.
Lungo le vie del paese (scusate, proprio non riesco a chiamare Giaveno “città”) i negozi ospitano altri dipinti, libri, poesie e racconti stampati su pergamena, invogliando chi passeggia ad una sosta diversa.




Già, ci sono anch'io.




Scende il buio sulla scalinata agghindata a festa; i tappeti blu, l’edera avvolta da drappi candidi trasformano i semplici gradini; le candeline ammorbidiscono gli spigoli, accogliendo i visitatori:
«Venite, sedetevi con noi, ascoltate le parole degli scrittori e chiacchierate con loro».

Chissà, forse il prossimo anno ci sarà anche il loro racconto tra le letture.