giovedì 30 giugno 2016

Al di là, l'Aurora, di Milena Barella. Racconto vincitore del Marengo d'oro 2015


Ero il figlio di un dio sbadato che mi ha messo nel corpo sbagliato; i miei primi trenta anni li ho passati a strisciare lungo i muri, come fanno i topi per non essere scoperti.
Ho trascorso la vita a cercarmi, poi nel tumulto di una notte ho capito che io c'ero.

Il fumo s'innalza davanti al mio occhio, che scruta la notte attraverso la vetrata del pronto soccorso.
L'altro occhio é coperto dalla borsa del ghiaccio che vi tengo premuta.
Stringo il bicchiere di carta, caldo del tè che sto sorseggiando.
Sono sotto osservazione da ieri sera, quando un'ambulanza mi ha raccolta, coperta di sangue da far schifo, in una strada ben frequentata: ciò non é bastato a fermare un gruppetto di ignoti dal darmele di santa ragione. Nessun testimone, per me.
Sono stata fortunata, non hanno riscontrato lesioni gravi, solo qualche taglio e tanti lividi.
Appena farà giorno, se cammino dritta e non vomito, mi dimetteranno.
Mi é andata bene per essere la prima volta che le prendo, fa male, molto, ma le ferite si riassorbiranno.
Di solito vengo aggredita in metro, al mercato, negli ospedali, nei bar, una volta persino in banca dal cassiere: si tratta perlopiù di sguardi incagliati, allusioni, derisioni. Questi sono lividi invisibili, ma bruciano forte dentro l'anima: é un veleno che s'insinua nella carne, come la gramigna, talmente profonda da non scavare mai abbastanza per sradicarla.
Questo posto é stata per un po' la mia seconda casa: so dove si trovano il bagno, la mensa, l'accoglienza e soprattutto il reparto macelleria.
Quando vi sono entrato sei anni fa, di nome facevo Tommaso.
Mi hanno intrattenuto con lunghe attese, cure, psicoanalisi e masticato per benino fino al giorno dell'intervento. Adesso che mi é stata "concessa la libertà" sono diventata un boccone troppo amaro da digerire.
Avvicino il bicchiere al vetro e nell'alone del vapore che lo imperla, traccio col dito il nome che ho sempre sognato per me, oggi mi chiamo Aurora.
Sono fiera di essermi pagata gli interventi col duro lavoro, senza prostituirmi, alla faccia di questo sistema subdolo che si finge tollerante mentre affonda la lama. Io sono un meccanismo difettoso che va tenuto dentro il filo spinato: non sanno come aggiustarmi.
Se mi osservi noterai il caos: ho un rossetto vistoso, spalle larghe, mascella pronunciata e fra le gambe una voragine con su scritto "lavori in corso".
Sono un cantiere ancora aperto: sebbene abbia concluso gli interventi con il corpo, non ho chiuso i conti con la mente.
Il mio volto ha mantenuto i tratti mascolini nonostante la cura di ormoni; mi é stata consigliata una soluzione di chirurgia estetica, ma non possono obbligarmi. L'ultimo ricordo di Tommaso non me lo strapperanno: ci ho litigato sino allo sfinimento, però gli ho voluto bene e nessuno può costringermi a dimenticarlo.
Torno a sedermi, la testa vortica e penso a mia madre.
La ricordo intenta a cucinare col suo grembiule a fiori e un fazzoletto a trattenere i riccioli.
Un giorno misi i suoi vestii e il suo rossetto, e quando quel deficiente di mio fratello fece la spia, lei rimase in silenzio senza guardarmi, e mi chiuse in camera senza la cena.
Era troppo arguta per non comprendere ciò che ero, però continuò a fingere di non vedermi. Tuttavia la misi in imbarazzo un'infinità di volte e mi perdonò sempre.
Ero piccolo, non capivo il disagio che mi straziava e quando da grande provai a parlarne fui escluso, emarginato.
Mi schernivano quando giocavo a calcio, ammiravo le bambine pettinare le bambole, avrei voluto vivere serenamente la mia emotività e alla fine ho imparato a fingere.
Mi sono scavalcato, violentato in nome di compagnie effimere; quando fui abbastanza maturo e logoro da capire che sarei comunque rimasto solo, esplosi.
E ferii mia madre, obbligandola a guardarmi per quello che sono. Quella volta non ci fu perdono.


Verso le quattro una coppia di anziani varca la soglia del pronto soccorso.
Lui é sul lettino con una flebo inserita nel braccio. Bisbiglia alla moglie per tranquillizzarla.
Attendono che l'operatore si allontani per sbrigare le pratiche, poi si danno timidamente la mano.
Lei ne accarezza il dorso, sorride dolcemente. E' minuta, ma c'é una forza immensa nello sguardo basso dal contegno dignitoso.
Lui sussurra parole in dialetto, non le capisco, ma sono quiete, ancora innamorate.
Non riesco a staccare lo sguardo, vorrei tanto far parte del quadro.
Ad un tratto l'operatore torna. Staccano le mani a fatica e lei gli sfiora la guancia con un bacio.
Rimaniamole sole. Scambiamo un saluto e mi si avvicina.
" Cosa le é capitato signora? "
La osservo perplessa e penso che la donna abbia problemi di vista, ma l'accontento e racconto.
Ascolta preoccupata, si porta la mano alla bocca, poi prende la mia e sorride.
Mi tiene compagnia parlandomi della sua vita, di come si tiene un'orto, si fa il pane, come si allevano le capre.
Mi mostra una ricetta che custodisce gelosamente in borsa e ne legge gli ingredienti, allora capisco che non ha bisogno di occhiali: mi ha vista, gliene sono grata e mi sento viva.
Ho la beata sensazione di essere tornata bambina, vicina a mia madre.
Quando manca un quarto alle sei un dottore esce dalla porta, la cerca: il suo volto é un libro aperto.
La sento irrigidirsi, non fa domande, attende rassegnata le parole del medico.
Si alza, mi osserva commossa mentre mordo un labbro per nascondere le lacrime. Il suo sguardo ha oltrepassato la speranza.
Mi regala un bacio sulla fronte, io le stringo convulsamente la mano, quel dono inatteso fa vibrare la mia speranza.
Rimango sola, frastornata.
Rivivo le loro carezze, i sussurri, l'ultimo sguardo consapevole, accolto con tale dignità da farmi scordare tutte le mie ferite.
E di farmi vergognare del tempo perso a esitare.
Nessuno a questo mondo é giusto o sbagliato. Siamo arabe fenici nella vita che ci attraversa: risorgiamo ogni dì liberi di essere, al di là dei pregiudizi.

Oltre il vetro guardo sorgere un nuovo giorno e mi vedo, proprio lì, tra il buio della notte alle spalle e l'alba dinanzi: io ci sono, io sono l'Aurora.

venerdì 3 giugno 2016

Processo al libro, Coazze 28 maggio 2016

Sabato 28 maggio si è tenuto il Processo giuridico Libro Vs e-book. Nell’aula del Palatenda di Coazze, il libro di carta è stato accusato, da parte del libro in formato digitale, di essere vecchio, costoso e ingombrante.
Il processo, che ha avuto una lunga fase preparatoria, è stato organizzato dai ragazzi delle Seconde medie della scuola Giulio Nicoletta di Coazze. A partire dal mese di marzo, io e i ragazzi abbiamo esaminato il processo di creazione del libro, che nasce dall’idea nella mente dello scrittore, seguendo via via tutti i passaggi che conducono al lettore, ovvero a chi usufruirà del libro.
Durante i nostri incontri, e nelle mail che ci siamo scambiati, i ragazzi hanno scoperto quante persone e quanti professionisti lavorano per la perfetta riuscita di un libro: dall’autore, il creatore del libro vero e proprio, a chi seleziona i manoscritti, dall’ufficio acquisizioni della casa editrice all’editor, dal correttore di bozze all’impaginatore, al grafico che crea la copertina, per arrivare al tipografo e al rilegatore, passando per il corriere e il magazziniere, fino al libraio e alla vendita del prodotto finito.
Abbiamo esaminato il processo in particolar modo dal momento in cui il testo può diventare un libro di carta o un e-book, scoprendo insieme che soltanto i passaggi finali cambiano: dalla stampa alla libreria per il tradizionale libro, dal tecnico informatico al web per l’e-book.
Ciascuno di loro ha scelto di entrare nel ruolo che sentiva più vicino, per portare una testimonianza al processo, per spiegare alla giuria e al pubblico quanto è importante che ognuno faccia del suo meglio. Alcuni di loro hanno subito deciso da che parte stare, altri hanno preferito ascoltare come giurati e decidere dopo il processo.
Lorenzo Naia, scrittore ed educatore, ha accettato il ruolo di giudice; per questo è stato tenuto all’oscuro di tutti i passaggi nel dettaglio, fino al giorno del processo. Lo informavo via mail dei progressi, ma soltanto dal punto di vista formale: i contenuti erano per lui sconosciuti, come deve essere per un giudice veramente imparziale.
Elisa Bevilacqua ha accettato il ruolo di giurata, sedendosi con i ragazzi ad ascoltare le testimonianze e porgendo domande.
Ho voluto che i ragazzi non seguissero un copione, ma che decidessero essi stessi le domande da porre e le risposte da dare, talvolta improvvisando anche davanti al pubblico.

È stata una battaglia senza esclusione di colpi in cui il vero vincitore, come ha sottolineato Lorenzo Naia nella sentenza finale, è la lettura: non importa quale mezzo si scelga, quel che conta è che si continui a leggere, sempre.