giovedì 27 agosto 2015

Corso di scrittura umoristica

CORSO di SCRITTURA UMORISTICA
con Massimo Tallone
dal 23 settembre 2015

Contenuti del corso
Obiettivo del corso: di fornire strumenti utili a che intende specializzarsi nella scrittura umoristica. Fra le finalità previste vi è la creazione di un blog umoristico e collettivo, capace di ‘colpire’ a 360 gradi sul mondo d’oggi.

Programma
Massimo Tallone fornirà i ferri del mestiere, indicherà metodi e malizie e soprattutto cercherà di infondere il coraggio di dare l'assalto alla pagina bianca senza l'ansia scolastica, senza il tormento del giudizio, senza quell'eccesso di sfiducia in se stessi che spesso è la causa dell'impotenza espressiva.
Programma:
§  Che cosa voglio scrivere: l’obiettivo deve essere chiaro
§  Dal soggetto al plot, dalla fabula all’intreccio
§  La traccia, le schede dei personaggi, i luoghi: gli appunti
§  Il testo breve: battuta, parodia, parafrasi
§  Il testo breve: ironia, sarcasmo, frecciata
§  Satira e commento salace
§  Le malizie del testo: la frase, il periodo, il raccordo, la sintassi
§  Il Giudice Interiore e l’umorismo
§  Grammatica e punteggiatura: consigli pratici (dai punti interrogativi alle sigle)
§  Varianti umoristiche: romanzo, racconto, saggio
§  Registro, stile, tono
§  Le parole e le cose; la proprietà; il dettaglio che illumina; l’allusione
§  Revisione e rilettura, correzione ed editing
§  Il libro, il blog, radio e televisione: prospettive editoriali e di collaborazione

Docente: Massimo Tallone
Sede: Torino, via Gioberti, 8
Struttura del corso: otto incontri da due ore l’uno, il mercoledì, dalle 18,30 alle 20,30

Costo: euro 244,00 a persona (IVA inclusa)

Per informazioni ed iscrizioni:

In collaborazione con Maria Teresa Carpegna, editor freelance 
e-mail: mariateresa.carpegna@gmail.com

Il profumo del biancospino, di Claudio Rolando

Alla fine la notte era scesa su quel pezzo di terra, gli assalti erano cessati e ora ristagnava solo l’odore acre della polvere da sparo, mescolato a quello dolciastro del sangue.
Appoggiato al bordo della trincea, Giuseppe sporse appena la testa per uno sguardo veloce. La luna non era ancora sorta e all’incerto chiarore delle stelle  le postazioni nemiche formavano una lunga linea scura. In mezzo, il silenzio immobile del campo di battaglia. Un istante solo e tornò a sedersi, in attesa.
Da quanto tempo era iniziato quel macello? Due, tre giorni? Forse di più. Non lo ricordava. Ormai in quella trincea e in quel pezzo di terra, punteggiato di rocce frantumate e buche delle bombe, i tempi erano scanditi solo più dal ritmo degli assalti e poi dai gemiti dei feriti, dal rantolo dei moribondi e dall’andirivieni silenzioso degli uomini con la croce rossa sull’uniforme. 
Non sapeva che giorno fosse e neppure se lo domandava. Solo aspettava. Obbediente e disciplinato come gli avevano insegnato, aspettava il suo turno per attraversare il confine del silenzio che aveva già inghiottito i suoi compagni, uno dopo l’altro.
Col buio la paura aumentava e Giuseppe appoggiò la schiena contro la parete di terra, quella terra che aveva lavorato fin da bambino e gli era penetrata nelle pieghe della pelle, sotto i calli delle mani, nei polmoni. In quel momento gli sembrava che solo lei, la terra solida, leale, generosa, potesse dargli quel po’ di coraggio che gli serviva per vincere l’angoscia dell’attesa.
Nella confusione della sua mente tornarono le parole di una preghiera e cominciò a recitarla in silenzio, chiedendo al buon Dio “Una pallottola, una sola nel punto giusto”. Non gli importava di rimetterci una gamba, o un braccio pur di andarsene da quell’inferno.
Un fruscìo leggero catturò la sua attenzione. Il tempo di girare la testa e la sagoma di un topo gli passò veloce davanti ai piedi, poi scomparve nel buio. Un istante dopo la trincea si riempì dell’abbaiare furioso di Armando, il cagnolino della compagnia, lanciato all’inseguimento. Erano lì, a pochi metri e lui riusciva a distinguere la sagoma chiara del volpino.
Ora il ringhio di Armando era diverso, quasi un mugolio di soddisfazione. Per il topo era la fine.
Tornò il silenzio.

Giuseppe sollevò lo sguardo al cielo. Le stelle erano più brillanti, ripulite da una brezza leggera che proveniva da est, dalle linee nemiche. Portava con sé il profumo dolce del biancospino, lo stesso che aveva respirato avidamente, mescolato a quelli del fieno e della pelle di Ernestina nelle notti d’estate, quando tutto sembrava fermarsi e restavano soli sotto la coperta di stelle, con la testa che girava.
Ernestina! Da quando era partito non c’era stata una sola notte senza che il ricordo dei suoi occhi scuri e di quel sorriso, che faceva ribollire il sangue, non gli fosse stato compagno. Erano immagini così vive che, a volte, era come se gli prendessero la mano per guidarla dolcemente su quei capelli morbidi e poi lungo il collo sottile, fino ai seni sodi a indugiare sui piccoli capezzoli. Un ricordo che riportava nelle sue narici, ora piene solo dell’odore della polvere da sparo e della terra, la sensazione di quei profumi e la testa gli girava, proprio come in quelle notti d’estate.

Anche adesso a Giuseppe girava la testa e sentiva di nuovo il profumo del biancospino. Non pensò che era sfiorito da mesi. Non si accorse neppure del silenzio che aveva invaso la trincea e continuò a seguire quel ricordo, così vivo che gli sembrava di poterlo toccare. Non indossò la maschera antigas; non pensò che la morte potesse avere il profumo dolce del biancospino.

lunedì 17 agosto 2015

La dannata infamia, di Roberto Varrone

La scuola elementare di Cegno, liberata dalle grida allegre degli alunni, si preparava ad ospitare le grida lancinanti dei partigiani che subivano botte e torture. Li portavano lì da tutta la valle, man mano che venivano catturati. Erano ammucchiati in due classi al primo piano. Quando quei ragazzi furono messi in fila a spintonate e a calci per essere trascinati fuori, alcuni di loro pensarono finalmente di essere fucilati ponendo così fine a quella orribile sofferenza. Altri invece, avendo subito un po’ meno atrocità, si illusero a momenti alterni, che sarebbero stati liberati.
Uno solo fu liberato.
Luigi faceva il meccanico della manutenzione alla polveriera di fondovalle, era stato esentato dal servizio militare, in quanto chi lavorava in quel tipo di aziende, era già militarizzato. Troppo spudoratamente in fabbrica si era lasciato andare a dure critiche contro il caporeparto, fascista di comodo locale. Gli arrivò all’orecchio che il suo capo lo aveva denunciato come disfattista ed antifascista. Fece appena in tempo a rifugiarsi sulle vicine montagne. Raggiunse “il Rosso” di cui era cugino. Luigi non sapeva quasi nulla, giusto il nome del comandante e lo disse:
«Franco, si chiama Franco, lo chiamano comandante Franco e sta al Chargé».
Poi un pianto a dirotto, inconsolabile. Lo avevano torturato come gli altri, ed avevano continuato anche dopo la rivelazione del nome e del luogo, pensando che potesse sapere altro. Quando capirono che nulla di più avrebbero potuto estirpare da quel corpo martoriato, gli dissero sorridendo:
«Bravo ti sei guadagnato la libertà, hai visto che a parlare c’è sempre da guadagnare!».
Continuarono a sbeffeggiarlo per un po’, ogni tanto qualcuno passava nel corridoio dove Luigi era seduto su di una panca di legno scuro, scuro come gli ematomi che gli coprivano il viso sotto un casco di capelli arruffati e scuri, così come  le mani tumefatte, la destra senza unghie, gli risparmiarono quella del pollice, forse per caso. Ora per un nome, per un solo nome era diventato un infame traditore, non veniva neanche più controllato per timore che fuggisse.
Ritornò un ufficiale:
«Bene Luigi, vai pure a casa, quella è la porta, accomodati, prima che cambi idea».
L’ufficiale gli aprì la mano e gli mise nel palmo le unghie strappate. Quasi automaticamente chiuse la mano trattenendo quei cimeli che gli appartenevano. Luigi poi divenne terreo e biascicò:
«Ma come qui fuori, adesso? Proprio qui, così capiranno tutti che ho parlato!».
Sotto una frangia di capelli scuri sporchi e umidi i suoi occhi spalancati denunciavano terrore.
«Beh, questi sono affari tuoi. Noi ti liberiamo, siamo di parola. Non lo sapevi che i partigiani sono cattivi. Che uccidono i traditori. Vedi noi siamo migliori, assai più bravi! Infatti ti abbiamo restituito persino le tue unghie» disse beffardo, quello che le aveva strappate.
Gli uomini del gruppo in partenza,  ancora non avevano idea a quale gradino di abiezione umana stavano assurgendo. Salirono in ventisei sul camion. Percorsero un breve viaggio a monte, verso Forno di Cegno. Giunti che furono, vennero fatti smontare in malo modo. Quei ragazzi si sentirono dei morti viventi, con liberazione i più pessimisti, e con terrore i più ottimisti. I rami intorno a loro proponevano delle gemme che un freddo di ritorno aveva congelato, molte di loro non ce l’avrebbero fatta, qualcuna, poche sarebbero sopravvissute, ma solo per un evento meteorologico, non per la ferocia umana, che invece si apprestavano a subire quei ventisei esseri umani. Ventisei vite in procinto di diventare ventisei morti. Nulla e nessuno poteva salvarli. Tutti sperarono in un rinsavimento umanitario degli ufficiali nazisti e fascisti, che invece fecero a gara, per dimostrare di essere feroci e duri, vinsero la gara per un soffio gli autoctoni italiani. Vinsero alla fine del tormento a cui avevano sottoposto quei giovani ormai già carne da macello.
Mentre Luigi si trascinava per la strade di Cegno, con un piede e una mano senza unghie, ogni volta che spostava il piede destro avanti, per portarsi verso casa sua, irraggiungibile in quelle condizioni, un dolore gli attraversava il cervello. Un altro dolore meno sanguinolento gli uccideva il cuore, ed era quello di avere tradito, di non avercela fatta a sopportare il pur atroce dolore. Eppure Luigi camminava lo stesso, le lacrime uscivano senza che lo volesse, e quando il dolore fisico sembrava lenirsi, riappariva quello mentale. E intanto senza rendersi conto continuava a stringere le sue unghie ancora intrise del sangue rappreso. Luigi, mise le braccia conserte, ad estrema difesa di se stesso, e questo gli ricordò, quando bambino, si poneva nella stessa posizione perché genitori gliele suonavano per qualche marachella. Si commiserò, avrebbe dato la vita per un atto di comprensione e di affetto, da parte di chiunque. Era solo, maledettamente solo, sicuramente la mamma gli avrebbe elargito una carezza, forse dicendogli:
«O por al me cit, cosa a l’an fate?».
Ogni tanto quasi a fil di voce sussurrava:
«Mamma, mamma, sono un disgraziato, non mi vorrai più neanche tu». 

Le lacrime sgorgavano con ancora più forza di prima, la fronte rilasciava gocce di sudore che si mescolavano alle prime. Quell’incredibile odissea, si protrasse per poco più di un’ora. Luigi, giunse infine a Pontelegno, dove vi era il ponte sul Belleva, il più alto della valle, la sua casa era ancora molto, troppo lontana. Il giovane realizzò in un attimo che la sua casa non era quella lontana, dove forse la mamma lo pensava sorridendo. La sua casa ora era la morte, quella che raggiunse un attimo dopo essersi lanciato dalla spalletta ed essersi fracassato la testa contro le rocce sottostanti. “Il Rosso”  che aveva l’aspetto del traditore per la scarsa capacità di rapportarsi agli altri, era morto il giorno prima salvando parecchi compagni, quasi da eroe. Luigi, su cui tutti avrebbero puntato per il coraggio e la simpatia, era andato a raggiungere il cugino, suicidandosi, pensando di essere solamente un traditore. 

Uno stralcio del romanzo Il Partigiano che conobbe il futuro

mercoledì 12 agosto 2015

Sei mesi, di Lauretta Bonato

Sei mesi, la vita.
Trovarsi in una città nuova, in posti diversi con gente sconosciuta, non rientrava nei piani di Lucrezia. Lasciare la sua casa, i suoi affetti, gli amici, era stata una decisione sofferta. Ma quando l’oncologa le disse che avrebbe avuto non più di sei mesi da vivere, tutto cambiò.
Voleva ritornare nella sua terra, dove era nata. Terra che non aveva mai conosciuto perché i suoi genitori emigrarono dopo la sua nascita a Sidney, Australia.
Fu così che assieme ad Alex, suo compagno da una vita, decise di trasferirsi in Italia. Affittò sulle colline liguri una “casetta fatta di pietre e fiori”, come la chiamò lei, appena la vide.
Subito se ne innamorò. Il panorama dalla collina era di una bellezza straordinaria. La casa si affacciava su un promontorio a picco sul mare. Dal giardino davanti casa lei vedeva, ogni mattino, l’alba di un nuovo giorno.
Iniziò così quella che lei chiamò “la rinascita di vita”.
Era marzo quando arrivarono in Liguria, a San Bartolomeo. Una cittadella bella, pulita e fiorita con gente cordiale. Trovò la casa arredata con molto gusto. L’interno, come l’esterno, aveva mura fatte di pietra e i caldi tessuti color granata e oro rendevano il tutto molto accogliente. Le prime settimane le dedicarono a cercar qualcosa di più personale da vivere per la casa. Lei ed Alex andarono in giro per vie, negozietti e mercatini locali. La sua malattia in quel luogo magico, sembrò essere sparita.

Nessuno dei due voleva affrontare l’argomento, fino a quando non ce ne fosse stata l’esigenza.
Aprile portò i primi caldi, le prime foglie verdi e le fioriture di piante e fiori.  Alex le regalò una pianta di mimosa da piantare nel giardino dal quale lei continuava a vedere ogni giorno nascere il sole. Col suo impegno e le sue cure, la pianta cresceva e le regalava bottoni gialli color del sole e molto profumati.
A maggio ci fu il primo controllo. Le notizie non erano belle, ma Lucrezia con un sorriso, salutò il medico e prese per mano Alex, consapevole del suo male. Nuove pastiglie, nuove terapie non l’avrebbero salvata e, questo, lei lo sapeva.
Non avevano potuto avere figli, ma questo non impedì loro di continuare ad amarsi, anzi.  E ora, dopo quasi vent’anni, erano più innamorati che mai. Ed era questa la sofferenza più grande per Lucrezia, lasciare il suo Alex.
Conosciuto tra i libri in biblioteca e mai più lasciato andare. Il loro amore fu ostacolato da molti, soprattutto dai genitori di Alex perché lei era più “vecchia”. Vecchia… avevano undici anni di differenza, ma per Alex non fu mai un problema. E ora lei ne aveva cinquantatré e il suo amore era ancora giovane. Per questo una sera Lucrezia, fra le lacrime di entrambi, gli fece promettere che non l’avrebbe mai rimpianta ma, per l’amore che li  univa, avrebbe dovuto rifarsi una vita. E Alex promise a cuore spaccato.

Giugno. Il caldo incominciò a far da padrone.
Le passeggiate lungo il mare divennero un’abitudine giornaliera. Assaporare l’odore del mare, godere della musica prodotta dalle onde che s’infrangevano sugli scogli, era per loro sublime. Niente era più bello.
Mano nella mano percorrevano chilometri sul litorale, per poi tornare verso sera a casa a preparare insieme la cena e guardare il sole alto nel cielo.
Luglio portò i vacanzieri. Famiglie con ragazzi, bambini che giocavano sulla spiaggia. Ombrelloni di tutti i colori decoravano il lido. Invasioni di turisti dalle facce felici di trovarsi sulla spiaggia e farsi cullare dal mare.
Il loro piccolo mondo stava diventando sempre più piccolo, ma a Lucrezia e Alex non dava fastidio. Avrebbero sempre voluto dei figli, da amare, coccolare e viziare ma, come diceva lei «Il buon Dio vuol tenere per sé gli angeli più belli». E una sera la strada del ritorno incominciò a diventare pesante. Ma Lucrezia fece finta di nulla e non lo disse ad Alex.
Agosto arrivò silenzioso con le sue giornate lunghe e calde, che facevano impazzire i vacanzieri.  A volte, pur recandosi molto presto in spiaggia, la trovavano già invasa da teli distesi a segnare il posto, il diritto di un pezzetto di spiaggia, che si aggiudicava chi arrivava prima.
Quel pensiero di “diritto”, la faceva sorridere stringendosi sempre più a lui, il suo amore. A lei non serviva avere lo spazio per distendersi al sole. Lei voleva soltanto stare fra le sue braccia. Soprattutto ora che sentiva la vita scivolarle via.
Continuava a non dirlo ad Alex, di come si sentiva male al risveglio e della stanchezza che l’assaliva alla sera. Lui, il suo uomo, il suo amore, la sua vita stessa, lo aveva già intuito ma non glielo avrebbe mai fatto capire per non farla rattristare al pensiero della malattia.
Non le avrebbe mai detto che di notte mentre lei dormiva fra le sue braccia, lui restava a guardarla e piangeva in silenzio.                                                                                                                     Fuochi d’artificio e festa fino a notte fonda per il quindici di agosto, ma loro non scesero in paese per festeggiare. Lucrezia stava male.
«È solo un leggero mal di testa dovuto al troppo sole» si giustificò lei, «e andare su e giù incomincia a farmi sentire gli anni» continuò sorridendo. Lui le prese le mani, gliele baciò e la strinse forte al suo petto.
«Sistemo due poltrone in giardino. Guarderemo i fuochi da qua». E fino alla fine di agosto, fu così che trascorsero le loro serate.
L’inizio di settembre si fece sentire con le prime piogge. In spiaggia di ombrelloni, ne erano rimasti pochi.
Questo era il mese dei nonni coi nipotini, degli anziani che non amavano la confusione estiva. Che assaporavano quel mese che segnava la fine dell’estate, in tutta la sua bellezza. Le giornate incominciarono ad accorciarsi, pur restando sempre belle ed assolate anche quando una leggera pioggerella si affacciava sul mare.
Anche le loro passeggiate si fecero meno frequenti.
«Preferisco godermi dal giardino il fresco e il panorama» diceva lei, «ho già preso sole a sufficienza» e sorrideva.
Al mattino dopo colazione, Alex scendeva in paese a far la spesa e, al suo ritorno, la trovava in giardino appisolata sulla poltrona con un libro in mano. Allora lui preparava il pranzo e sistemava il pasto su di un tavolino vicino a lei, non la svegliava per non farla affaticare e aspettava il suo risveglio per pranzare insieme.
Nel pomeriggio parlavano di poesie, di libri e dei loro ricordi fino a sera dove Alex, sempre col suo amore, continuava a coccolarla. E con questa scusa, la prendeva fra le braccia e la portava nel loro letto e l’amava.
Una sera d’estate di settembre, dopo una giornata d’amore e di sole, Alex la trovò addormentata sulla poltrona per l’ultima volta. Aveva il sorriso sulle labbra. Lui era appena tornato da una passeggiata. Aveva il suo libro in mano, ma guardando bene, Alex si accorse che non era un libro qualsiasi. Era scritto da lei, il suo amore.
L’ultimo regalo che Lucrezia gli fece. Il racconto della loro vita d’amore che iniziava così:
Ti ho voluto bene, e dopo ti ho amato. Alla fine mi sono innamorata. Si perché si può amare senza essere innamorati. Si possono amare i figli, la vita, il sole.
Ma io di te sono sempre stata innamorata e perciò, ti ho amato tanto. Ed è proprio per questo amore voluto e condiviso con te… ti lascio libero. Libero di amare e di innamorarti ancora. Me l’ hai promesso, e ora devi vivere. Vivi con tutto l’amore che hai dentro di te.   


                                                                                            Ti amo.

mercoledì 5 agosto 2015

Il sussurro dell'inverno, di Milena Barella

Al principio di un febbraio dal pallido sole l'animo del ragazzo appariva buio, così come lo era stato quell'ultimo inverno, il più freddo della sua vita.
Lo aveva trascorso fissando il fuoco nel modesto teatro del caminetto senza ricevere il calore desiderato, e abbracciando il proprio gatto si era domandato perché il destino avesse scelto lui per quella dura prova.
La donna della sua vita lo aveva lasciato affermando di non amarlo più; i pensieri si erano intrecciati convulsamente, trasportandolo verso un lento annullamento senza respiro. 
Attraverso la finestra sul retro della casa, spiava spesso il bosco in cerca di pace; in estate vi aveva passeggiato godendo di quelle piante e quegli arbusti ormai spogli, che ora, nell'aria frizzante, tacevano. L'inverno si era impadronito del suo cuore isolandolo dal mondo, gelido e indifferente al dolore che lo stava adagio logorando.
Così il ragazzo, nella speranza che il freddo si dissolvesse presto, aveva atteso il giungere della primavera, certo che il sole gli avrebbe portato consiglio.
Un giorno rimuginando nel proprio groviglio di sentimenti si scoprì a fissare con empatia il maggiociondolo del giardino: irriconoscibile e triste tra la crosta di brina che lo ricopriva.
"Beato lui" pensò, "al momento giusto tornerà a rifiorire e rinascerà più bello di prima".
Tale riflessione rimase silenziosa a fluttuare nel suo inconscio, ma abbastanza vicina all'animo da medicarne le ferite.
Con il giungere della primavera il bosco si animò e il ragazzo decise d'inoltrarsi nel rigoglioso fogliame per assaporarne la magia, curioso di sentire cosa le piante gli avrebbero rivelato.
Passeggiò tra i fruscii delle foglie ed il profumo dei fiori e nessun albero parve lamentarsi circa l'inverno ormai sfumato, al quale egli aveva portato rancore sino ad un attimo prima.
"Non erano il freddo e il buio a spaventarmi, ma il timore che la primavera risvegliasse il nuovo me stesso che sono diventato, spingendomi verso un domani, a me sconosciuto".
Si sentì in pace, in pace con l'inverno che era stato il suo legame fra la vecchia vita e la ricerca di una nuova esistenza.
Caro amico inverno che lo aveva protetto nella sua coperta bianca, sussurrando il silenzio e la solitudine necessarie a fargli intuire che il dolore non va combattuto, ma vissuto per morire poco alla volta e rinascere al momento giusto.
Lasciandosi alle spalle il bosco si diresse verso casa per uscirne subito dopo con una macchina fotografica fra le mani.
Giunto di fronte al maggiociondolo in fiore, puntò l'obiettivo per carpire tanta meraviglia, ma all'ultimo momento decise di fotografare la cosa più importante della sua vita: rivolse la fotocamera verso se stesso, sorrise e avviò l'autoscatto.


Dedicato ad un amico speciale che come me si è smarrito nel silenzio dell'inverno imparando ad ascoltarne i preziosi sussurri. 

domenica 2 agosto 2015

Légami, ma ucciderò ancora, di Mara Rosso

La pergamena fu trovata nella cella il mattino dell’esecuzione dalla guardia giunta per condurla al rogo: la Clerionessa era sparita, lasciando dietro di sé solo l’odore acre delle erbe destinate alle sue vittime e quel messaggio sibillino.
«Allarme, la strega è fuggita!» gridò la guardia incespicando sul selciato.
Era giorno di mercato, e la folla si stava accalcando per assistere al falò della masca, catturata e sommariamente processata il giorno prima.
Spintonata fino alla gogna tra sputi e insulti, la fattucchiera avrebbe dovuto attendere l’esecuzione di mezzodì, ma di lei non c'era più traccia.
La Clerionessa era la serva del signore di Vicus Gavensis, che viveva in una torre nota come Arco delle Streghe. Aveva appreso le proprietà delle erbe e dei fiori, rigogliosi in riva al Sangone, dalle donne di famiglia, le cui radici affondavano nella notte dei tempi, quando le alture erano abitate dalle tribù celtiche che vi si erano rifugiate per sfuggire agli invasori romani, attratti dalle ricchezze di quella verde vallata.
Le erbe della Clerionessa avevano curato molti, nel corso degli anni, ma avevano anche posto fine anzitempo ai giorni terreni di alcuni che, diceva l’anziana donna, “Avevano sfidato troppo il destino”. Come quel viandante in visita al padrone la settimana prima. Sbraitava per farsi riverire come un principe, molestava le contadinelle rubizze al pascolo con le capre, gozzovigliava ruttando e scoreggiando come un qualsiasi bifolco paludato in ricchi abiti puzzolenti. Finché una sera aveva ordinato alla Clerionessa un infuso che curasse la sua tosse persistente, e lei solo troppo tardi si era resa conto che, forse, aveva esagerato con le dosi di lauroceraso.
Il viandante (un mercante che vantava crediti di notevole entità nei confronti del signore, si era poi scoperto) era stato trovato morto nel letto, e subito la Clerionessa era stata arrestata: i clerici aspettavano solo il momento giusto per porre fine all’arte di quella misteriosa donna, divenuta ormai una minaccia per loro, e il signore non aveva potuto opporsi al volere ecclesiale.

Ma la Clerionessa aveva ancora in serbo una sorpresa per i malvagi che osavano aggirarsi nei vicoli e nelle piazze di Vicus Gavensis e, un mazzetto di erbe nascosto tra le vesti consunte, si era lasciata condurre alla gogna mansueta come un agnello portato al macello, deridendoli con la sua misteriosa sparizione proprio mentre, gongolanti, sistemavano le fascine per accendere il fuoco su cui sarebbero bruciate le sue scarne membra, la sua chioma fulva e i suoi vispi occhi azzurri. Occhi che, ancora oggi, scrutano gli incauti viandanti in procinto di compiere qualche malefatta: la risata cristallina e beffarda della Clerionessa li saluta dall'Arco delle Streghe nelle notti di luna piena, e i magici legàmi, forse, non si scioglieranno mai a Vicus Gavensis... 
Antonio Nunziante. Olio su tela