martedì 10 settembre 2019

Andrea Molesini, La primavera del lupo, Sellerio

Ho letto soltanto adesso, a sei anni dall'uscita, La primavera del lupo, di Andrea Molesini. Il libro era lì, ad aspettarmi sul ripiano della libreria, ma non mi sembrava mai il momento. L'amarezza del tema, il periodo storico più discusso della storia d'Italia, la narrazione affidata ad un bambino orfano di dieci anni mi facevano immaginare un romanzo doloroso, la cui lettura serale difficilmente avrei sopportato. Così non è. Iniziato durante una domenica di relax, mi è stato facile, anzi doveroso, terminarlo rapidamente. 
Il dolore c'è: due bambini di dieci anni, Dario ebreo e Pietro cattolico, sono tenuti nascosti nel convento di San Francesco del Deserto, che si trova su un'isolotto davanti a Venezia. Siamo nel marzo 1945, la guerra sta per finire e l'Italia è frammentata e confusa. In uno degli ultimi accessi d'odio dell'antisemitismo, i tedeschi arrivano al convento, in cerca del bambino e di due sorelle, anch'esse ebree, anch'esse nascoste. Nella notte si deve fuggire, Pietro va con loro, guidati da frate Ernesto e da suor Elvira. Una barca, manovrata da quello che Pietro chiama Lirlandese, li porta al largo. 
È l'inizio di una fuga ricca di colpi di scena, che porterà il gruppo dalla laguna al mare e di nuovo alla terraferma, fino ai boschi del Trentino. Intanto inizia e finisce aprile e comincia maggio, ma il lettore non se ne avvede, se non dalle rare date scritte da suor Elvira su fogli che usa come diario della fuga e come sfogo per il suo segreto. Il gruppo fugge di notte, nella nebbia, nel bosco; la natura non cambia e non si vede; si sente freddo, ci si bagna, si mangia pochissimo e male. Qualcuno non ce la fa, altri entrano in scena. Primo fra tutti Karl, un tedesco che ha sofferto e, per questo, ha cambiato idea. 
Non mi pento di aver letto questo romanzo: il dolore si stempera nella parole ingenue e ridicole di Pietro, la storia d'Italia resta come sfondo sfumato di confusione e ingiustizie. Ammetto, però, di non esserne rimasta del tutto convinta. 
Innanzitutto la prosa di Pietro è troppo sgrammaticata, soprattutto se collegata ai significati che il bambino esprime, concetti filosofici profondi narrati con figure retoriche che talvolta sembrano davvero poco spontanee. In secondo luogo non mi ha convinto la scansione della trama, troppo densa di scene ad effetto, di comparse eccessive nella bruttezza o nell'enigmaticità. Questo secondo tratto toglie scorrevolezza all'intreccio, rendendolo più un susseguirsi di eventi, che un filo narrativo vero e proprio. Inoltre restano irrisolti alcuni punti che il lettore memorizza e che, a libro chiuso, danno una sensazione di incompletezza.
Resta, in ogni caso, un libro da leggere, per capire i segni che le brutture della guerra, soprattutto quando è alla fine e gli odi si scatenano in violenze inutili e vendicative, lasciano sui bambini. Loro ci portano dentro la vicenda, e loro ce ne faranno uscire, con una chiusura degna di un'epigrafe.