venerdì 19 febbraio 2016

Tallone & Carillo, La riva destra della Dora, Capricorno

Nel panorama letterario della giallistica contemporanea, l’assortimento di investigatori è vario e in continuo ampliamento. Poliziotti, carabinieri, scrittori, vecchietti arzilli dalla memoria prodigiosa, casalinghe annoiate e ragazzini precoci, tutti pronti a vestire i panni di Sherlock Holmes.
Nell’ultima fatica di Tallone e Carillo, La riva destra della Dora, questo compito spetta a Lola, già protagonista del precedente romanzo Il postino di Superga. In questo caso, però, la ragazza non avrebbe nessuna intenzione di indagare su un bel niente. Ben sistemata dietro al bancone del suo nuovissimo negozio di leccornie da gourmet, il Caveau, viene incaricata (costretta è la parola giusta) a cercare dati su un caso che non dovrebbe nemmeno sfiorarla.
La candidata al posto di Governatore della regione, Aldina Chiappero, è stata uccisa sotto gli occhi di tutti nientemeno che con un colpo di balestra, durante il suo ultimo comizio.
Cosa potrà mai avere a che fare una ex-galeotta come Lola con un omicidio politico? E perché Guiscardo, poliziotto amante del lessico e delle buone maniere, pensa che proprio lei possa aiutarlo nelle indagini?
Comincia così per i protagonisti del romanzo una serie di ricerche, inseguimenti, deduzioni e appostamenti, tutti condotti con la tecnica dei migliori professionisti, grazie a Carillo, criminologo e coautore del romanzo.
A Tallone spetta il compito (perfettamente realizzato) di trasportare con le parole il lettore in un’indagine dai ritmi incalzanti, ricca di colpi di scena mozzafiato e di momenti deliziosamente comici. La sua prosa curatissima crea un ritmo che trasporta il lettore tra le viuzze del Parco del Valentino, nel caos di un centro sociale, tra i profumi stuzzicanti del Caveau, in un saliscendi di tensione, passione e divertimento.
In tutto questo si muovono personaggi memorabili, primo fra tutti Lola, spavalda e all’apparenza forte, ma la cui sensibilità traspare nei piccoli gesti, nella capacità di dare e comprendere. La sua debolezza viene mascherata da un atteggiamento quasi aggressivo, certamente frutto della sua esperienza carceraria, dove ogni incertezza poteva renderla facile preda. 
È solo uno dei tanti personaggi che costellano il romanzo e costruiscono, con i loro ruoli perfettamente inseriti, una trama ricca e imprevedibile. 


Sentiamo direttamente dai loro creatori, Tallone e Carillo, come sono nati i personaggi principali della Riva destra della Dora, Lola e Guiscadro:


Lola è ormai una presenza viva, fra noi, e le sue origini si sono perse nella notte delle chiacchiere. Guiscardo invece è il risultato di un lavoro preparatorio: noi non amiamo le figure canoniche del giallo investigativo, commissari, ispettori e simili. Ci piace la vicenda noir legata direttamente alle persone normali, non agganciata al livello delle istituzioni. Dunque ci occorreva un personaggio che avesse un aggancio con la legalità, ma che agisse per così dire da fuori, da lontano. Ed è nato Guiscardo.

- La vostra collaborazione sta dando ottimi frutti. Come si lavora ad un romanzo a quattro mani?

Ora che abbiamo concluso il secondo romanzo e ci apprestiamo a comporre il terzo possiamo dire di aver affinato una tecnica che in effetti non è poi così rigida, ma che prevede, dopo la fase preparatoria, la stesura di una bozza mista, con giri di mail continui e quotidiani. Poi, quella massa ancora bruta passa alla graduale messa a punto tesa ad uniformare lo stile.

-  Come si sviluppa la trama, come si creano i personaggi in collaborazione con un altro autore?

La fase preparatoria del romanzo a quattro mani è molto di divertente. Si passa dalla individuazione di un tema generale affiancato a una sorta di scena del crimine e poi si chiacchiera a lungo fino a che si inquadra una linea narrativa, una 'fabula', per dirla in termini tecnici. Infine decidiamo come intrecciare quella serie di scene. Per entrambi è davvero fertile questa fase di reciprocità, di brain storming, di parole in libertà. C'è da dire che aiuta molto la profonda amicizia e l'intesa che ci caratterizza, la piena sintonia umana e tecnica.

-  Il romanzo inizia con un comizio politico, ma poi prende una direzione imprevista. L'idea di uccidere la vittima con una balestra è stata un impulso del momento o una costruzione ben architettata? 

L'idea della balestra è nata come sempre da quella attività conversativa, svolta in lunghe passeggiate per le vie di Torino, durante le quali ipotizziamo scenari e osserviamo le persone, ci fermiamo davanti alle vetrine, esaminiamo location, facciamo foto, commentiamo la forma del mondo e i gusti delle persone...

- Dopo molti libri venduti per le vie canoniche in libreria, come vi è sembrata l'avventura di un romanzo da acquistare in edicola? Come hanno reagito i vostri fan? 

All'inizio un po' spiazzante, ma poi abbiamo aderito con entusiasmo. Un libro è un libro, e se raggiunge il pubblico ogni canale va bene. 
Chi ci segue con affetto non bada alla questione. E chi non ci conosceva o che non ha l'abitudine di andare in libreria forse ha trovato in edicola un modo leggero per avvicinarsi ai libri.

- Il dover analizzare le affascinanti figure femminili del romanzo è stato per me un incarico molto piacevole, che mi ha dato modo di scoprire nuovi aspetti della vostra creatività. Vi è costata fatica immedesimarvi in loro e risultare credibili?

C'è una sola risposta, a questa domanda, parafrasando Flaubert, per ognuno di noi: "Lola c'est moi!".


La riva destra della Dora sarà reperibile in edicola fino al 18 marzo. 
Dal 3 marzo in poi Il postino di Superga e La riva destra della Dora, entrambi editi da Edizioni del Capricorno, saranno disponibili in libreria. 

Tallone & Carillo saranno alla libreria COOP di Galleria San Federico il 3 marzo per presentare i loro romanzi.

Un'anteprima

giovedì 18 febbraio 2016

Alice Basso, L'imprevedibile piano della scrittrice senza nome, Garzanti

Esistono molti mestieri inconsueti: scopritori del sesso dei pulcini, trasportatori di iceberg, restauratori di nani da giardino, ingelositori di mariti o di mogli… 
Silvana Sarca può entrare nella testa di chiunque; non perché sia telepatica o neurochirurga, ma perché con pochi, invisibili indizi, riesce a percepire il vero carattere, le aspettative e le manie di chi le sta di fronte. Questa pratica le riesce grazie a tre doti particolari: una brillante e spiccatissima intelligenza, una cultura profonda ma ad ampio spettro e un menefreghismo empatico che le mostra nudità cerebrali del suo interlocutore senza provocarle, o quasi, emozioni.
Questa sua abilità le è valsa un posto da ghostwriter presso le bicentenarie Edizioni L’Erica, ruolo che occupa con grandissimi risultati e nessuna soddisfazione; perché il ghostwriter, una volta compiuto il suo dovere, prende il suo misero stipendio e svanisce.
Rimpianti? Nessuno, del resto Vani è perfettamente in grado di bastare a se stessa.
Il suo look total-dark, l’amore per la solitudine e la capacità di restare chiusa in casa per giorni non sono soltanto un lato caratteriale, ma la condizione necessaria per immergersi nel lavoro, entrare in perfetta simbiosi con il cliente, anzi, trasformarsi in lui, diventare una Mister Ripley senza smanie di omicidio, una Zelig della scrittura, una Brachetti con soli abiti neri.
Finché… perché, non ve lo aspettavate un “finché”? Ovviamente tutte le storie più riuscite hanno degli imprevisti e Vani ne incontra addirittura tre, quasi contemporaneamente: Riccardo Randi, scrittore di enorme successo e uomo dalla bellezza sfolgorante, Bianca Dell’Arte Cantavilla, “comunicatrice angelica”, e il commissario Berganza, con l’aria sbattuta del perfetto poliziotto da romanzo.
Meglio non dire altro, perché L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome è innanzitutto un libro ricco di colpi di scena, di sorprese e rivelazioni, nonché di umorismo.

Tra battute fulminanti e citazioni letterarie, Alice Basso ci guida con grande perizia nel mondo dell’editoria e della narrativa; leggere il suo romanzo avvincente e spassoso è un metodo divertentissimo per conoscere i trucchi del mestiere di scrittore. 

giovedì 4 febbraio 2016

Gabriella Tessa, L'ultima volta

Lo sbirciò da dietro le spesse lenti che ormai era costretta a portare. A essere onesti, non lo trovava così bello da molto, molto tempo, non ricordava nemmeno più da quando.
Forse era stata la volta che Marilù li aveva scarrozzati per la campagna con l'auto decappottabile. Rivedeva  il cielo terso di aprile chiazzato di poche piccole nuvole che si inseguivano sopra le loro teste spettinate dal vento. Erano scesi nei pressi di un prato punteggiato di fiori e lui si era incamminato a grandi falcate in mezzo all’erba che gli saliva fin quasi a mezza coscia. Mentre Marilù stendeva la tovaglia a scacchi bianca e rossa e vi riponeva sopra il cesto di vimini pieno di ogni ben di Dio, con la coda dell'occhio lei aveva visto le  spalle squadrate di lui spuntare tra i fili d'erba e si era chiesta cosa diavolo ci fosse là in mezzo per fargli sfidare le ginocchia scricchiolanti. Poi se lo era ritrovato davanti con la manona screpolata che le porgeva ranuncoli e bocche di leone sistemati in un bel mazzo ordinato. Le aveva fatto tenerezza vederlo grande e grosso, con la testa canuta e gli occhi un po' appannati, sfoderare un sorriso pieno di promesse, come se tutta l'acqua passata sotto i ponti in quei decenni trascorsi insieme non avesse attenuato proprio niente, semmai solo un po’ addolcito.
O era stato quando il loro Tommy li aveva lasciati una fredda giornata di novembre. Quell’inverno e nei mesi successivi, mentre lei si aggirava per casa come un fantasma abbracciato al suo dolore, lui lottava per mantenere senno e pazienza, come un equilibrista a mani nude su una fune a dieci metri da terra  lotta contro la legge di gravità, ben conscio che un'eventuale caduta avrebbe significato la fine per tutti e due. Quando finalmente era riuscita a sporgersi dal pozzo della sua disperazione lo aveva trovato lì ad aspettarla, smagrito, stanco, con gli occhi buoni colmi di sollievo. E lo aveva scoperto infinitamente bello, come se il dolore gli avesse grattato via la superficie, per rivelarne l'anima.
Oppure la volta della sua unica colossale sbornia a casa di Pitt. Lui, sempre così parsimonioso di colpi di testa, quella sera aveva bevuto una tale quantità di Franciacorta, più un paio di bicchierini di Scotch, che a un certo punto Pitt e suo figlio lo avevano dovuto infilare in macchina di peso. E lei che non amava guidare era stata costretta a sfidare al volante quella trentina di chilometri, con la notte che si infilava dai finestrini inghiottendo tutto tranne loro due. Era stata l’unica volta in tanti anni che si era presa cura di lui. Una volta a casa sani e salvi, dopo averlo spogliato e sistemato sotto le lenzuola chiamandolo “vecchio ubriacone”, gli si era accoccolata accanto vestita di tutto punto e allora lui si era messo a piangere come un vitello e non la finiva più di tirare su col naso cercando la sua mano sopra il copriletto, mentre lei gli pizzicava le guance tragicomiche inondate di lacrime. Avevano dormito così, lui in canottiera e mutande e lei in tailleur e scarpe col tacco, proprio come due divi in una commedia americana.
E ora eccolo lì, composto e limpido, come sempre attento a non darle dispiaceri. Fino alla fine. Appena si era reso conto che la sua testa non riusciva più a metterla al centro di ogni pensiero aveva preferito andarsene e si era addormentato, quietamente, per non turbarla oltre il dovuto. Lei aveva mandato  tutti via, non aveva voluto sentire ragioni. Quella sarebbe stata l’ultima notte con lui ed era solo sua.

Gabriella Tessa è insegnante e vive a Giaveno
Ha collaborato alla raccolta di racconti Venti di montagna, Echos edizioni 

Daniela Negro, La cerata a limoni

Ersilia si asciugò le mani nel canovaccio di tela e si sedette al tavolo della cucina.
Il sole del pomeriggio disegnava righe ondulate sulle tendine.
Era ora di cominciare a fare gli scatoloni, lo sapeva. Il giorno dopo all’agenzia ci sarebbe stato il compromesso per la vendita della casa e a fine mese l’atto dal notaio. Poi, la casa di riposo.
Chiuse gli occhi e pensò ai suoi figli, Valeria e Andrea.
«Dai, mamma, vedrai che lì ti troverai bene. Verremo a trovarti ogni settimana, promesso! Qui non ci puoi più stare, lo capisci anche tu, vero? Da quando non c’è più papà è pericoloso. Senza ascensore, poi! Eddai, mamma, schiodati! Non vorrai mica che la gente pensi che vuoi più bene alla casa che ai tuoi figli?».
Le sembrava di sentirle, le voci dei suoi ragazzi, quella ininterrotta e nervosa di Valeria, quella rada e asciutta di Andrea. Così diversi tra di loro, così compatti nel convincerla a vendere la casa. Avevano bisogno dei suoi soldi per le loro nuove vite. Era giusto così.
Aprì gli occhi e la casa la salutò. La macchia di umido sul soffitto, fiori di ceramica alle pareti,  la macchina da cucire nell’angolo. Mille oggetti, mille ricordi. Provò ad ascoltare: la radio lì vicina, sempre accesa per le sue adorate canzoni, da sopra i tacchetti di Rosa pronta ad uscire per il suo giro, fuori le voci dei ragazzi scesi al capolinea dell’autobus. Voci di una casa di borgata: Dove l’aria è popolare, è più facile sognare che guardare in faccia la realtà.
Cercò di alzarsi ma il mal di schiena si fece subito sentire con una fitta che le strappò un lamento: dovette risedersi. Avevano ragione i ragazzi, lì non ce la poteva più fare: le amiche mica la aiutavano a far le scale, la spesa non veniva su da sola, e se poi le fosse capitato di star male, Dio mio che cosa sarebbe successo, loro non potevano certo telefonare tutti i giorni!

Ersilia passò  la mano sulla tovaglia del tavolo. La cerata a limoni. Ricordava ancora quando l’aveva comprata, tanti anni prima, al mercato di Tor Vergata. Splendidi limoni gialli con le foglie verdi avevano rallegrato la cucina, e non l’aveva più voluta cambiare, neanche quando il tempo aveva cominciato a lasciare i suoi segni; era diventata un po’ ruvida e appiccicosa, eppure lei l’aveva lavata tutti i giorni per poi appoggiarci sopra il suo lavoro da sarta. Aveva dovuto smettere quando l’operazione alla cataratta era andata male, ma le sue signore continuavano a venirla a trovare lo stesso, per il buon profumo che c’era nella casa, dicevano, profumo di pulito e di caffè.
Si guardò intorno e decise: doveva buttare via qualcosa, non aveva senso portare troppe cianfrusaglie nel garage che avevano affittato per metterci la roba. Con un gesto rabbioso strappò via la tovaglia e la lasciò cadere a terra. Rimase stupita a guardare il piano di legno del tavolo: la cerata l’aveva preservato benissimo, il colore era ancora vivo e chiaro come quando lei e Marcello l’avevano comprato, infiniti anni prima. Però c’erano dei segni. Si avvicinò per guardare più da vicino e passò da un sorriso all’altro, scoprendo le tracce di una vita intera: l’adesivo della Barbie incollato di nascosto da Valeria, una macchia di vino filtrato attraverso un taglio fatto da Marcello, forse in uno dei suoi attacchi d’ira, il piccolo cerchio nero di una sigaretta, sicuramente un dispetto di Andrea quando a tredici anni  aveva cominciato a fumare. Qualcosa in un angolo; si avvicinò quasi a sfiorare il tavolo con il viso. Una frase scritta a biro. Ersilia si aggiustò gli occhiali. Je ne t’oublierai jamais, mon amour e due lettere intrecciate: E R    
L’ondata dei ricordi le piombò addosso all’improvviso, lasciandola senza fiato. Roland. Il suo amore. Il pensiero di ogni sera per tutte le sere. In un attimo tornò ai quei giorni di tanti anni prima. Allora i bambini erano piccoli, e lui era il padre di una loro compagna di classe sempre malata che si era rivolto a lei per i compiti:
«Abbia pazienza, signora, sono un ragazzo padre!».
Quella sua autoironia l’aveva conquistata. Quanto avevano parlato! Per quanto tempo interminabile erano rimasti a guardarsi negli occhi, lottando tra quello che volevano e quello che non si poteva.
«Per me il tuo matrimonio è un muro invalicabile». Per lei invece erano stati i bambini: non avrebbe mai potuto portarli via al padre, neppure ad un padre così. E quando a Roland era scaduto il contratto come lettore di francese al liceo di periferia in cui era stato assunto per un anno, avevano deciso insieme che non si sarebbero più visti. Si erano regalati solo un’ultima,  intera giornata in centro, a Roma; i baci a Villa Borghese, gli sguardi incatenati, l’ultima frase:
«Non ti dimenticherò mai. E i ricordi, lo sai, nella vita sono tutto». Quell’ultimo bacio, nel disperato tentativo di fermare il tempo.
Si alzò senza ascoltare il dolore alla schiena e andò al telefono:
«Pronto? Sì, signorina, volevo dirle che avrei… ho cambiato idea. Proprio così, non vendo più».                    

Roland era tornato da lei, per aiutarla a prendere la decisione giusta. Fino alla fine. 

Daniela Negro è insegnante e vive a Giaveno.
Ha collaborato alla raccolta Venti di montagna, Echos edizioni

Cristina Petrini, Il profumo della memoria

Sabato mattina, inizio di settembre. Troppo vicino alla fine delle vacanze per potersi prendere una nuova pausa. Ma qui non si trattava di una pausa. Occorreva lasciare andare via una cosa molto importante.
Erano nel piccolo orto antistante la vecchia casa di Amalia. Quante cose da salvare, prima che i nuovi proprietari prendessero possesso di ciò che avevano acquistato. Ci sarebbe voluto molto più tempo, ma mio padre non avrebbe potuto rimandare di un paio di settimane l’appuntamento con gli svuotatori di case? Avevano provato a farlo loro ma c’era troppa roba ammucchiata, troppa ‘rumenta’. E così quel giorno era andata solo l’anziana zia a controllare e a mettere in salvo e loro come degli stupidi a lavorare mentre avrebbero dovuto essere lì con lei.
«Avevo messo da parte quel servizio di bicchierini di vetro sottile, ma quelli avevano fretta di finire, un colpo e via erano lì a terra, calpestati. Non sono arrivata in tempo neanche a salvare la vecchia culla in legno e la seggiolina di canne da bimbi. Erano troppo lesti ed io troppo lenta ad intervenire nel dire quello sì e quello no. Però questo attaccapanni in legno l’ho messo da parte e anche la pietra pomice a forma di fuso e la vecchia caffettiera alla napoletana e il macinino a mano…» disse zia Tere.
In tutti quegli oggetti risiedeva una parte della sua memoria di bambina. Era lì depositata, ma viva nella mente. Riguardare quei singoli pezzi nel momento in cui avrebbero per sempre lasciato quel posto e trovato un'altra collocazione le diede la sensazione di fine. La nonna Amalia se ne era andata molti anni prima, ma finché loro erano tornati ogni primavera per fare l’orto, a mangiare carne alla griglia sotto la ‘topia’ all’ombra della vite di uva fragola  e a prendere il caffè nelle sue tazzine, era come se lei fosse rimasta lì.
Avevano recuperato tutto il possibile, ma quella mattina era come se nessuno volesse abbandonare il posto.
Cominciò a gironzolare per l’orto, da anni non più coltivato e ricoperto da un bel manto di erbetta verde che il vicino aveva provveduto a tenere ad altezza accettabile. Andò a visitare il melograno che aveva piantato suo fratello e l’alloro accanto. Poi si avvicinò a dove crebbe il suo pino. I vicini avevano voluto che lo abbattessero perché avrebbe potuto cadere sulla strada. Fandonia, terribile. Raccolse un pezzo di corteccia per tenerlo come reliquia di albero e di fanciullezza. S’ avvicinò al piccolo appezzamento delle rose per trarne alcune e farne talee da ripiantare e lo stesso fece con i bulbi dei giacinti. Dietro la ‘topia’ sua nonna teneva un pezzetto di terra dedicato ai giacinti e ogni aprile quel pezzetto diventava tutto rosa e verde e profumatissimo. Allo stesso modo in maggio fiorivano le rose di diverse varietà e colori. Con una piccola zappa rimosse alcuni bulbi.
«Abbiamo preso tutto?»
«No, aspetta ancora un momento».
Volle guardare ancora una volta la casa, dentro: la cucina che d’inverno sapeva di brodo di carne e poutagé, la cantina piena di attrezzi da campagna e bacinelle e secchi, con il piccolo lavello in pietra e un unico rubinetto di acqua fredda; la scala lunga e dagli alti gradini che portava di sopra con il mancorrente in legno che suo padre aveva costruito per renderla più sicura. E poi ancora le camere che sapevano di polvere e naftalina e vecchi libri nascosti dietro tende negli armadi a muro. Volle affacciarsi alla finestra ancora una volta prima di chiudere la ‘gelosia’. Che bel pezzo di terra piana aveva la nonna proprio di fronte a casa. Peccato non aver potuto tenerla. Peccato davvero.
Ancora pochi passi in giardino, un’occhiata al pollaio. Si va, si lascia.
La macchina è carica di un sacco di cose che troveranno altrove un nuovo posto. Le rose continueranno a fiorire e lo stesso faranno giacinti. Li ha piantati con cura e spera che si trovino bene nel nuovo terreno meno argilloso, più roccioso. Ci vorrà magari un po’ di tempo per attecchire.
Ma c’è già un nuovo aprile, un nuovo maggio. I giacinti spuntano verdissimi tra il verde tenero. Hanno passato l’inverno. Le rose germogliano sui vecchi ceppi.
Si china ad annusare il grappolo dal color rosa tenue, lo accarezza e quello che sente per lei è tutto. È inizio.

Cristina Petrini vive a Rivalta e ha pubblicato due romanzi: 
Niente è come il mare, Edizioni Seneca
Camminando sul confine, Echos edizioni