mercoledì 23 settembre 2015

Simon Rowd, Drow, Mondadori Electa

Siamo a Skittburgh, una città qualunque del nord America.
Protagonisti di questa storia sono degli studenti universitari; c’è una lei, Sophie, bella ma timida, e c’è un lui, Jimmy, spigliato e disinvolto amico di sempre.  Si potrebbe pensare che ci sia qualcosa di più tra loro, ma non è così, c’è un profondo legame che forse supera la semplice attrazione fisica. Per questo lui può confidarle tutte le sue avventure senza paura di renderla gelosa, anche perché le lezioni universitarie sembrano il luogo adatto per fare conoscenze interessanti e mentre lei ha un carattere più chiuso, Jimmy non si rifiuta nessuna possibilità, passando da una storia all’altra con leggerezza ed allegria. 
Eppure quando entra in scena Eric, uno splendido ragazzo che in aula si siede per caso accanto a Sophie, ecco che Jimmy comincia a diventare sospettoso. D'altronde Eric non è così limpido:  il suo carattere ombroso, cupo lo rende ancora più affascinante e Sophie, guardando nei suoi occhi profondi, vede qualcosa di cui si innamora perdutamente.
Fin qui potremmo credere di avere a che fare con un romanzo sentimentale, in cui dei giovani adulti si trovano alle prese con le prime problematiche di coppia. Lei, lui, l’altro, la scuola, i rapporti difficili con i genitori. Sì, c’è tutto questo, ma non è che semplice contorno, uno sfondo per il vero fulcro della trama. Tutto comincia a rivelarsi quando Eric esce di notte. Non va in un locale, magari per trovare un’avventura alternativa, ma nell’oscurità della notte cerca qualcosa, con una smania che nemmeno lui comprende. Lo troverà nei bassifondi: un combattimento nella gabbia, uno di quegli scontri violenti, dove si scommette non solo sul vincitore, ma spesso sul sopravvissuto.  Cosa lo spinge a questa violenza, perché questa aggressività istintiva di cui egli stesso ha timore? E perché nel buio totale egli si trova perfettamente a suo agio?
L’unico che ha capito è Jimmy, il grande amico di Sophie. Lo osserva, lo scruta, perché lui sa quale energia si cela dentro le sue membra. Eric è un elfo, esattamente come Jimmy, ma di una natura ben diversa; le loro caratteristiche sono simili, ma Eric ama il buio, la notte, la lotta, perché è un drow, un elfo oscuro.
Per scoprirne di più, e per poter accettare questa situazione, chiederanno aiuto al professor Hauffman e questo incontro sarà l’inizio di una serie di colpi di scena che trascineranno il lettore fino in fondo al libro, coinvolgendolo a tutto tondo nei sentimenti dei protagonisti e nelle loro avventure a ritmo sempre più frenetico.

Drow è un romanzo che cambia il genere fantasy, perché le creature soprannaturali non agiscono in un mondo “altro”, non vivono in un villaggio in mezzo alle montagne, lungo una forra boscosa, bensì in una normale città occidentale.
Simon Rowd cattura il lettore con uno stile veloce ma ricco, una prosa che si adatta ai ritmi differenti delle scene. Leggendo Drow vi dimenticherete di essere seduti nella vostra poltrona e vi sembrerà di dover correre nel buio della notte, sentendo il sibilo delle frecce che scattano al vostro passaggio. 

lunedì 14 settembre 2015

Pieces of heaven, di Roberta Novarino

Il venticello rinfresca il clima caldo, accarezzando con tocco leggero i fili d’erba, onde astratte che si fondono con quelle del laghetto, nel quale si specchia l’imponente massiccio del Monte Rosa.
È un giorno qualunque di fine agosto: stormi di passeri creano nel cielo azzurro figure astratte, muovendosi al ritmo di una musica diffusa soltanto tra le nuvole. Il fruscio delle foglie appena scosse dal vento si confonde con lo scrosciare del Lys, che passa al di sotto del caratteristico ponticello in legno: in lontananza fa capolino, tra le imponenti fronde di conifere, una delle torrette del castello appartenuto a due generazioni della famiglia Savoia.
Alcune persone passeggiano sulla carrareccia che si inoltra sino a Gressoney la Trinité, altre osservano silenziosamente il paesaggio che li circonda, godendosi gli ultimi tiepidi raggi pomeridiani.
Il sole gioca a nascondino con il Liskamm, rendendo la neve dei grandi ghiacciai di una tonalità rosea: poche nubi sulle sfumature del rosso contornano il cielo, creando un contrasto di chiaro scuro senza paragoni.
I vecchi stadel sono ora popolati dalle nuove generazioni, che ritornano nel segno del passato e dei propri avi: le rustiche abitazioni in legno, con i tetti coperti per mezzo di grandi lose, ben si adattano a questa vallata selvaggia e inviolata.
La città di Gressoney Saint Jean è sì cresciuta, ma l’atmosfera che si respira, come l’aria fresca aromatizzata dall’odore pungente di muschio e resina, è sempre la stessa: su quei prati, una bambina dai lunghi capelli biondi gioca con un enorme pallone rosso…
Nello stesso luogo, qualche stagione dopo, una ragazza siede sulle rive del laghetto, stilografica alla mano, per imprimere su un foglio di carta, per mezzo di parole, il suo tramite preferito, le sue emozioni; in fondo, quel legame con il suo passato, con un piccolo angolo del suo paradiso, è e sarà per sempre indissolubile.




lunedì 7 settembre 2015

L'aquilone, di Linda D'Addio

Il nonno riposava all’ombra fresca e profumata del pergolato. Le mani, nodose e torte dall’artrite, pendevano mollemente dal bordo del bracciolo della sedia a rotelle.
Dalla cucina che affacciava sul cortile proveniva il familiare rumore delle antine della credenza aperte e poi richiuse, il movimento dei tegami e lo scorrere dell’acqua nel lavandino.
Mentre preparava cena, sua figlia Emma, guardò verso il giardino e accarezzò con lo sguardo le tre figure silenziose sedute lì fuori: i genitori anziani e la sua bimba di sette anni.
Suo padre aveva il capo leggermente piegato da un lato: lo sguardo spento seguiva il ronzare sommesso delle api intente a bottinare tra i fiori del glicine. Seduta accanto a lui stava la nonna, odorosa lei stessa come il sacchettino di lavanda posto nel cesto del cucito che teneva in grembo; era china su un rammendo che di tanto in tanto posava per carezzare ora la mano avvizzita del marito, ora la pelle liscia e tenera delle gambe della nipotina, allungata sulla sdraio, spensierata, come lo si può essere solo a quelle età, intenta a soffiare nelle bolle di sapone.
D’un tratto, gli occhi grigio azzurri del nonno, a dispetto dell’Alzheimer incalzante, ripresero colore e vivacità e si rivolsero alla moglie porgendole una richiesta silenziosa.
Erano passate già alcune settimane da quando aveva pronunciato l’ultima parola, “Tilde”, la sua compagna da sempre, per poi ritirarsi in un suo mondo muto. Ogni giorno più lontano dalla realtà, cercava caparbiamente di aggrapparsi ad essa attraverso mozziconi di ricordi adesi l’uno all’altro come le bolle di sapone di Alice: legame delicato, inconsistente, pronto ad evaporare come un sogno al primo alito di vento.
Intanto, Alice volse il capo verso casa e gridò:
«Mamma! Abbiamo fame!»
«Ma è quasi ora di cena» contestò la mamma dalla cucina, «comunque, ok, vi porto qualcosa».
Pochi minuti dopo arrivò con succo di frutta e paste di meliga. Con l’angolo del grembiule pulì uno spazio sul tavolo da giardino, per posare spuntino e bicchieri, dopo aver spostato con il gomito le cesoie, alcuni bastoncini di bambù e i guanti da giardinaggio rimasti lì dimenticati.
Il nonno allungò la mano verso il tavolo e Tilde, premurosamente, gli porse il bicchiere ma lui fece cenno di no col capo.
«Vuoi un biscotto?». Ma ancora un no, deciso, infastidito.
«Cosa vuoi nonnino?» disse Alice e lui con le dita indicò le cannette di bambù.
«Queste?» chiese la bambina porgendogliele. Il nonno sorrise, poi si tese verso il cesto da cucito e prese forbici e filo: dispose le bacchette a croce e cercò di legarle maldestramente.
Tilde gli chiese con dolcezza cosa volesse fare e lui, inaspettatamente, pronunciò a fatica: «Carta».
A quella parola inattesa, Alice balzò in piedi, mentre la nonna, ora in piedi anche lei, euforicamente, quasi gridava: «Un aquilone! Vuoi fare un aquilone!».
Il viso del nonno si accese in un sorriso.
«Sai che il nonno» disse Tilde alla bimba, «che ha fatto il maestro per tanti anni, insegnava ai suoi allievi la geometria costruendo aquiloni? Con la carta spiegava come son fatti i triangoli e i rombi e anche gli angoli retti! Li studierai anche tu più avanti. Ora vai dalla mamma e chiedile, per piacere, carta sottile, come quella che c’è nelle scatole delle scarpe, e prendi anche lo scotch, la pinzatrice e anche i tuoi pennarelli».
Alice schizzò verso casa per tornare poco dopo con tutto il materiale.
La nonna si mise al lavoro: il nonno annuiva; la bimba un po’ aiutava, un po’ saltellava elettrizzata. In un niente, un grande aquilone, con i quadranti decorati da Alice e la coda di anelli di carta, fu pronto.
Intanto si stava alzando la fresca brezza del tramonto: sembrava venuta apposta per sollevare la loro opera. Qualche tentativo incerto e poi ecco che carta, disegni, ricordi, desideri e amore volarono in alto, fremendo al vento come foglie di pioppo, trattenuti appena dal filo sottile.
«Mamma! Corri! Vieni a vedere i triangoli volanti!» gridava la bambina  battendo le mani.
In cielo, l’aquilone colorato inseguiva nuvole rosa e voli di cornacchie dirette ai posatoi notturni.
Sul tavolo sotto il pergolato brillavano leggermente le impronte iridescenti delle bolle di sapone.
Il nonno guardò in alto, lontano e rise.                                                                                                                     

giovedì 3 settembre 2015

Ciao, di Mauro Lenta

Ciao,
se hai un minuto, ti racconto una cosa straordinaria che mi è capitata.
Mentre passeggio in mezzo a un prato, godendomi la solitudine e la tranquillità, osservo. Ci sono fiori ovunque, alcuni all’imbrunire si chiudono mentre altri si aprono.
Sai, ci sono fiori per le farfalle diurne e anche fiori per le farfalle notturne.
Intanto guardo i caprioli che saltano, i leprotti che corrono, gli scoiattoli che arrampicano.
Se stai attento puoi ancora sentire i picchi che battono, e vedere gli aironi che pescano, le poiane che cacciano.
Oh, forse il minuto è passato, ma ho ancora alcune cose da dirti e, se hai ancora un poco di tempo, non ti dispiacerà di avermi ascoltato.
Vedi con me la biscia d’acqua che fruscia, un topolino che scappa, una ghiandaia che gracchia e, mentre il cielo si fa scuro, emergono le stelle, arrivano le lucciole, i grilli cantano e passa un pipistrello.
E, finalmente, la cosa straordinaria: io sono qui, innamorato, legato per sempre allo sguardo e al sorriso di una foto in bianco e nero.
Come! Non credi  valesse la pena di ascoltarmi?
Oppure non trovi niente di straordinario nel mio racconto?
Mi dispiace, amico mio, perché non c’è niente di più straordinario nell’osservare ciò che ci sta intorno; e, per i fortunati come me, attraverso gli occhi dell’amore.
Ma vedo che sei impaziente, c’è qualcosa che ti urge, perciò ti ringrazio, per il tempo che mi hai dato.
Ti saluto e ti lascio con una preghiera: se vuoi, ricordati di me, almeno una volta, e prova a guardare il mondo coi tuoi occhi innamorati.


martedì 1 settembre 2015

Prima, di Gabriella Tessa

L'ultima sera una luna generosa rischiarò a giorno il villaggio, come a voler regalare altro tempo al commiato di Salif con la sua terra.
A quell'ora in giro non c'era anima viva. Anche i suoi dormivano da un pezzo. Solo Mira continuava a rigirarsi nel letto; per lei non doveva essere facile. La aveva osservata a lungo mentre trafficava per la cucina con l'aria assorta. Aveva seguito le sue piccole mani che si muovevano svelte tra le pentole, intente a rimestare la loro ultima cena insieme per poi posarsi quiete sui volti dei bambini in tenere carezze. Aveva sentito una fitta di gelosia, ma  era riuscito a resistere all'impeto di volerla tutta per sé. Sapeva bene che la sua parte la avrebbe avuta a suo tempo, nella segreta intimità del loro letto. Mira sapeva essere generosa come nessun altra donna, era sicuro che quella sera avrebbe saputo consolarlo e accollarsi un po' di pena per toglierla a lui. E così era stato.
La notte era silenziosa, attraversata soltanto da qualche lieve refolo di vento e dal latrato dei cani che si perdeva in fondo ai campi di sorgo. Quella quiete gli entrò piano piano nella testa insieme alle sagome scure delle baracche  e ai ciuffi d'erba rinsecchita che spuntavano qua e là nel bel mezzo della strada: un quadro disadorno da appendere in un luogo chissà dove a ricordo della sua terra. I volti di Mira e dei figli, al contrario, se ne stavano chiusi al sicuro nel portafogli, a portata di mano per i futuri momenti di nostalgia.
L'autobus per Khartoum sarebbe partito all'alba. Quello da Kasala a Kufrah era il pezzo di tragitto più semplice. Aveva raggranellato abbastanza denaro per assicurarsi un buon pezzo di viaggio a basso rischio; le complicazioni sarebbero cominciate a Kufrah, dove da semplice passeggero si sarebbe trasformato in clandestino, pigiato in uno dei camioncini di derrate diretto a Ajdabiya.  Da quel punto in poi il viaggio era tutto da inventare.
Mancava solo una manciata di ore all’alba. Salif voltò le spalle alla finestra e cominciò ad ispezionare la piccola stanza avvolta nella penombra. I suoi occhi si posarono sui contorni dei pochi mobili addossati alle pareti. A un certo punto gli sembrò di scorgere qualcuno sul vecchio divano. Si avvicinò cauto, tastò con la mano aperta i grossi cuscini sfondati al centro e capì che si era sbagliato. Allora si sedette proprio nel mezzo, dove i bambini, stretti tra lui e Mira, erano soliti cominciare baruffe tra strilli e risa, che finivano immancabilmente con qualche ruvido scappellotto. Chiuse gli occhi per non farsi scappare nulla dalla mente, mentre respirando profondamente si riempiva le narici dell'odore della sua casa: profumo di spezie e di sapone da bucato, misto all’odore di terra e di fumo che salivano dalla strada. Questo era tutto ciò che desiderava portarsi appresso, insieme ai quattro indumenti piegati con cura dalle piccole mani di Mira sul fondo di una valigia in finta pelle. 

Gabriella Tessa è insegnante e vive a Giaveno.
Ha collaborato con la raccolta di racconti Venti di montagna, Echos edizioni