giovedì 4 febbraio 2016

Daniela Negro, La cerata a limoni

Ersilia si asciugò le mani nel canovaccio di tela e si sedette al tavolo della cucina.
Il sole del pomeriggio disegnava righe ondulate sulle tendine.
Era ora di cominciare a fare gli scatoloni, lo sapeva. Il giorno dopo all’agenzia ci sarebbe stato il compromesso per la vendita della casa e a fine mese l’atto dal notaio. Poi, la casa di riposo.
Chiuse gli occhi e pensò ai suoi figli, Valeria e Andrea.
«Dai, mamma, vedrai che lì ti troverai bene. Verremo a trovarti ogni settimana, promesso! Qui non ci puoi più stare, lo capisci anche tu, vero? Da quando non c’è più papà è pericoloso. Senza ascensore, poi! Eddai, mamma, schiodati! Non vorrai mica che la gente pensi che vuoi più bene alla casa che ai tuoi figli?».
Le sembrava di sentirle, le voci dei suoi ragazzi, quella ininterrotta e nervosa di Valeria, quella rada e asciutta di Andrea. Così diversi tra di loro, così compatti nel convincerla a vendere la casa. Avevano bisogno dei suoi soldi per le loro nuove vite. Era giusto così.
Aprì gli occhi e la casa la salutò. La macchia di umido sul soffitto, fiori di ceramica alle pareti,  la macchina da cucire nell’angolo. Mille oggetti, mille ricordi. Provò ad ascoltare: la radio lì vicina, sempre accesa per le sue adorate canzoni, da sopra i tacchetti di Rosa pronta ad uscire per il suo giro, fuori le voci dei ragazzi scesi al capolinea dell’autobus. Voci di una casa di borgata: Dove l’aria è popolare, è più facile sognare che guardare in faccia la realtà.
Cercò di alzarsi ma il mal di schiena si fece subito sentire con una fitta che le strappò un lamento: dovette risedersi. Avevano ragione i ragazzi, lì non ce la poteva più fare: le amiche mica la aiutavano a far le scale, la spesa non veniva su da sola, e se poi le fosse capitato di star male, Dio mio che cosa sarebbe successo, loro non potevano certo telefonare tutti i giorni!

Ersilia passò  la mano sulla tovaglia del tavolo. La cerata a limoni. Ricordava ancora quando l’aveva comprata, tanti anni prima, al mercato di Tor Vergata. Splendidi limoni gialli con le foglie verdi avevano rallegrato la cucina, e non l’aveva più voluta cambiare, neanche quando il tempo aveva cominciato a lasciare i suoi segni; era diventata un po’ ruvida e appiccicosa, eppure lei l’aveva lavata tutti i giorni per poi appoggiarci sopra il suo lavoro da sarta. Aveva dovuto smettere quando l’operazione alla cataratta era andata male, ma le sue signore continuavano a venirla a trovare lo stesso, per il buon profumo che c’era nella casa, dicevano, profumo di pulito e di caffè.
Si guardò intorno e decise: doveva buttare via qualcosa, non aveva senso portare troppe cianfrusaglie nel garage che avevano affittato per metterci la roba. Con un gesto rabbioso strappò via la tovaglia e la lasciò cadere a terra. Rimase stupita a guardare il piano di legno del tavolo: la cerata l’aveva preservato benissimo, il colore era ancora vivo e chiaro come quando lei e Marcello l’avevano comprato, infiniti anni prima. Però c’erano dei segni. Si avvicinò per guardare più da vicino e passò da un sorriso all’altro, scoprendo le tracce di una vita intera: l’adesivo della Barbie incollato di nascosto da Valeria, una macchia di vino filtrato attraverso un taglio fatto da Marcello, forse in uno dei suoi attacchi d’ira, il piccolo cerchio nero di una sigaretta, sicuramente un dispetto di Andrea quando a tredici anni  aveva cominciato a fumare. Qualcosa in un angolo; si avvicinò quasi a sfiorare il tavolo con il viso. Una frase scritta a biro. Ersilia si aggiustò gli occhiali. Je ne t’oublierai jamais, mon amour e due lettere intrecciate: E R    
L’ondata dei ricordi le piombò addosso all’improvviso, lasciandola senza fiato. Roland. Il suo amore. Il pensiero di ogni sera per tutte le sere. In un attimo tornò ai quei giorni di tanti anni prima. Allora i bambini erano piccoli, e lui era il padre di una loro compagna di classe sempre malata che si era rivolto a lei per i compiti:
«Abbia pazienza, signora, sono un ragazzo padre!».
Quella sua autoironia l’aveva conquistata. Quanto avevano parlato! Per quanto tempo interminabile erano rimasti a guardarsi negli occhi, lottando tra quello che volevano e quello che non si poteva.
«Per me il tuo matrimonio è un muro invalicabile». Per lei invece erano stati i bambini: non avrebbe mai potuto portarli via al padre, neppure ad un padre così. E quando a Roland era scaduto il contratto come lettore di francese al liceo di periferia in cui era stato assunto per un anno, avevano deciso insieme che non si sarebbero più visti. Si erano regalati solo un’ultima,  intera giornata in centro, a Roma; i baci a Villa Borghese, gli sguardi incatenati, l’ultima frase:
«Non ti dimenticherò mai. E i ricordi, lo sai, nella vita sono tutto». Quell’ultimo bacio, nel disperato tentativo di fermare il tempo.
Si alzò senza ascoltare il dolore alla schiena e andò al telefono:
«Pronto? Sì, signorina, volevo dirle che avrei… ho cambiato idea. Proprio così, non vendo più».                    

Roland era tornato da lei, per aiutarla a prendere la decisione giusta. Fino alla fine. 

Daniela Negro è insegnante e vive a Giaveno.
Ha collaborato alla raccolta Venti di montagna, Echos edizioni

Nessun commento:

Posta un commento