lunedì 17 agosto 2015

La dannata infamia, di Roberto Varrone

La scuola elementare di Cegno, liberata dalle grida allegre degli alunni, si preparava ad ospitare le grida lancinanti dei partigiani che subivano botte e torture. Li portavano lì da tutta la valle, man mano che venivano catturati. Erano ammucchiati in due classi al primo piano. Quando quei ragazzi furono messi in fila a spintonate e a calci per essere trascinati fuori, alcuni di loro pensarono finalmente di essere fucilati ponendo così fine a quella orribile sofferenza. Altri invece, avendo subito un po’ meno atrocità, si illusero a momenti alterni, che sarebbero stati liberati.
Uno solo fu liberato.
Luigi faceva il meccanico della manutenzione alla polveriera di fondovalle, era stato esentato dal servizio militare, in quanto chi lavorava in quel tipo di aziende, era già militarizzato. Troppo spudoratamente in fabbrica si era lasciato andare a dure critiche contro il caporeparto, fascista di comodo locale. Gli arrivò all’orecchio che il suo capo lo aveva denunciato come disfattista ed antifascista. Fece appena in tempo a rifugiarsi sulle vicine montagne. Raggiunse “il Rosso” di cui era cugino. Luigi non sapeva quasi nulla, giusto il nome del comandante e lo disse:
«Franco, si chiama Franco, lo chiamano comandante Franco e sta al Chargé».
Poi un pianto a dirotto, inconsolabile. Lo avevano torturato come gli altri, ed avevano continuato anche dopo la rivelazione del nome e del luogo, pensando che potesse sapere altro. Quando capirono che nulla di più avrebbero potuto estirpare da quel corpo martoriato, gli dissero sorridendo:
«Bravo ti sei guadagnato la libertà, hai visto che a parlare c’è sempre da guadagnare!».
Continuarono a sbeffeggiarlo per un po’, ogni tanto qualcuno passava nel corridoio dove Luigi era seduto su di una panca di legno scuro, scuro come gli ematomi che gli coprivano il viso sotto un casco di capelli arruffati e scuri, così come  le mani tumefatte, la destra senza unghie, gli risparmiarono quella del pollice, forse per caso. Ora per un nome, per un solo nome era diventato un infame traditore, non veniva neanche più controllato per timore che fuggisse.
Ritornò un ufficiale:
«Bene Luigi, vai pure a casa, quella è la porta, accomodati, prima che cambi idea».
L’ufficiale gli aprì la mano e gli mise nel palmo le unghie strappate. Quasi automaticamente chiuse la mano trattenendo quei cimeli che gli appartenevano. Luigi poi divenne terreo e biascicò:
«Ma come qui fuori, adesso? Proprio qui, così capiranno tutti che ho parlato!».
Sotto una frangia di capelli scuri sporchi e umidi i suoi occhi spalancati denunciavano terrore.
«Beh, questi sono affari tuoi. Noi ti liberiamo, siamo di parola. Non lo sapevi che i partigiani sono cattivi. Che uccidono i traditori. Vedi noi siamo migliori, assai più bravi! Infatti ti abbiamo restituito persino le tue unghie» disse beffardo, quello che le aveva strappate.
Gli uomini del gruppo in partenza,  ancora non avevano idea a quale gradino di abiezione umana stavano assurgendo. Salirono in ventisei sul camion. Percorsero un breve viaggio a monte, verso Forno di Cegno. Giunti che furono, vennero fatti smontare in malo modo. Quei ragazzi si sentirono dei morti viventi, con liberazione i più pessimisti, e con terrore i più ottimisti. I rami intorno a loro proponevano delle gemme che un freddo di ritorno aveva congelato, molte di loro non ce l’avrebbero fatta, qualcuna, poche sarebbero sopravvissute, ma solo per un evento meteorologico, non per la ferocia umana, che invece si apprestavano a subire quei ventisei esseri umani. Ventisei vite in procinto di diventare ventisei morti. Nulla e nessuno poteva salvarli. Tutti sperarono in un rinsavimento umanitario degli ufficiali nazisti e fascisti, che invece fecero a gara, per dimostrare di essere feroci e duri, vinsero la gara per un soffio gli autoctoni italiani. Vinsero alla fine del tormento a cui avevano sottoposto quei giovani ormai già carne da macello.
Mentre Luigi si trascinava per la strade di Cegno, con un piede e una mano senza unghie, ogni volta che spostava il piede destro avanti, per portarsi verso casa sua, irraggiungibile in quelle condizioni, un dolore gli attraversava il cervello. Un altro dolore meno sanguinolento gli uccideva il cuore, ed era quello di avere tradito, di non avercela fatta a sopportare il pur atroce dolore. Eppure Luigi camminava lo stesso, le lacrime uscivano senza che lo volesse, e quando il dolore fisico sembrava lenirsi, riappariva quello mentale. E intanto senza rendersi conto continuava a stringere le sue unghie ancora intrise del sangue rappreso. Luigi, mise le braccia conserte, ad estrema difesa di se stesso, e questo gli ricordò, quando bambino, si poneva nella stessa posizione perché genitori gliele suonavano per qualche marachella. Si commiserò, avrebbe dato la vita per un atto di comprensione e di affetto, da parte di chiunque. Era solo, maledettamente solo, sicuramente la mamma gli avrebbe elargito una carezza, forse dicendogli:
«O por al me cit, cosa a l’an fate?».
Ogni tanto quasi a fil di voce sussurrava:
«Mamma, mamma, sono un disgraziato, non mi vorrai più neanche tu». 

Le lacrime sgorgavano con ancora più forza di prima, la fronte rilasciava gocce di sudore che si mescolavano alle prime. Quell’incredibile odissea, si protrasse per poco più di un’ora. Luigi, giunse infine a Pontelegno, dove vi era il ponte sul Belleva, il più alto della valle, la sua casa era ancora molto, troppo lontana. Il giovane realizzò in un attimo che la sua casa non era quella lontana, dove forse la mamma lo pensava sorridendo. La sua casa ora era la morte, quella che raggiunse un attimo dopo essersi lanciato dalla spalletta ed essersi fracassato la testa contro le rocce sottostanti. “Il Rosso”  che aveva l’aspetto del traditore per la scarsa capacità di rapportarsi agli altri, era morto il giorno prima salvando parecchi compagni, quasi da eroe. Luigi, su cui tutti avrebbero puntato per il coraggio e la simpatia, era andato a raggiungere il cugino, suicidandosi, pensando di essere solamente un traditore. 

Uno stralcio del romanzo Il Partigiano che conobbe il futuro

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