Alla fine la notte era scesa su quel
pezzo di terra, gli assalti erano cessati e ora ristagnava solo l’odore acre
della polvere da sparo, mescolato a quello dolciastro del sangue.
Appoggiato al bordo della trincea,
Giuseppe sporse appena la testa per uno sguardo veloce. La luna non era ancora
sorta e all’incerto chiarore delle stelle
le postazioni nemiche formavano una lunga linea scura. In mezzo, il
silenzio immobile del campo di battaglia. Un istante solo e tornò a sedersi, in
attesa.
Da quanto tempo era iniziato quel
macello? Due, tre giorni? Forse di più. Non lo ricordava. Ormai in quella
trincea e in quel pezzo di terra, punteggiato di rocce frantumate e buche delle
bombe, i tempi erano scanditi solo più dal ritmo degli assalti e poi dai gemiti
dei feriti, dal rantolo dei moribondi e dall’andirivieni silenzioso degli
uomini con la croce rossa sull’uniforme.
Non sapeva che giorno fosse e neppure
se lo domandava. Solo aspettava. Obbediente e disciplinato come gli avevano
insegnato, aspettava il suo turno per attraversare il confine del silenzio che aveva
già inghiottito i suoi compagni, uno dopo l’altro.
Col buio la paura aumentava e Giuseppe
appoggiò la schiena contro la parete di terra, quella terra che aveva lavorato
fin da bambino e gli era penetrata nelle pieghe della pelle, sotto i calli
delle mani, nei polmoni. In quel momento gli sembrava che solo lei, la terra
solida, leale, generosa, potesse dargli quel po’ di coraggio che gli serviva
per vincere l’angoscia dell’attesa.
Nella confusione della sua mente
tornarono le parole di una preghiera e cominciò a recitarla in silenzio,
chiedendo al buon Dio “Una pallottola, una sola nel punto giusto”. Non gli
importava di rimetterci una gamba, o un braccio pur di andarsene da
quell’inferno.
Un fruscìo leggero catturò la sua
attenzione. Il tempo di girare la testa e la sagoma di un topo gli passò veloce
davanti ai piedi, poi scomparve nel buio. Un istante dopo la trincea si riempì
dell’abbaiare furioso di Armando, il cagnolino della compagnia, lanciato
all’inseguimento. Erano lì, a pochi metri e lui riusciva a distinguere la
sagoma chiara del volpino.
Ora il ringhio di Armando era diverso,
quasi un mugolio di soddisfazione. Per il topo era la fine.
Tornò il silenzio.
Giuseppe
sollevò lo sguardo al cielo. Le stelle erano più brillanti, ripulite da una
brezza leggera che proveniva da est, dalle linee nemiche. Portava con sé il
profumo dolce del biancospino, lo stesso che aveva respirato avidamente,
mescolato a quelli del fieno e della pelle di Ernestina nelle notti d’estate,
quando tutto sembrava fermarsi e restavano soli sotto la coperta di stelle, con
la testa che girava.
Ernestina!
Da quando era partito non c’era stata una sola notte senza che il ricordo dei
suoi occhi scuri e di quel sorriso, che faceva ribollire il sangue, non gli
fosse stato compagno. Erano immagini così vive che, a volte, era come se gli
prendessero la mano per guidarla dolcemente su quei capelli morbidi e poi lungo
il collo sottile, fino ai seni sodi a indugiare sui piccoli capezzoli. Un
ricordo che riportava nelle sue narici, ora piene solo dell’odore della polvere
da sparo e della terra, la sensazione di quei profumi e la testa gli girava,
proprio come in quelle notti d’estate.
Anche
adesso a Giuseppe girava la testa e sentiva di nuovo il profumo del
biancospino. Non pensò che era sfiorito da mesi. Non si accorse neppure del
silenzio che aveva invaso la trincea e continuò a seguire quel ricordo, così
vivo che gli sembrava di poterlo toccare. Non indossò la maschera antigas; non
pensò che la morte potesse avere il profumo dolce del biancospino.
Nessun commento:
Posta un commento