giovedì 27 agosto 2015

Il profumo del biancospino, di Claudio Rolando

Alla fine la notte era scesa su quel pezzo di terra, gli assalti erano cessati e ora ristagnava solo l’odore acre della polvere da sparo, mescolato a quello dolciastro del sangue.
Appoggiato al bordo della trincea, Giuseppe sporse appena la testa per uno sguardo veloce. La luna non era ancora sorta e all’incerto chiarore delle stelle  le postazioni nemiche formavano una lunga linea scura. In mezzo, il silenzio immobile del campo di battaglia. Un istante solo e tornò a sedersi, in attesa.
Da quanto tempo era iniziato quel macello? Due, tre giorni? Forse di più. Non lo ricordava. Ormai in quella trincea e in quel pezzo di terra, punteggiato di rocce frantumate e buche delle bombe, i tempi erano scanditi solo più dal ritmo degli assalti e poi dai gemiti dei feriti, dal rantolo dei moribondi e dall’andirivieni silenzioso degli uomini con la croce rossa sull’uniforme. 
Non sapeva che giorno fosse e neppure se lo domandava. Solo aspettava. Obbediente e disciplinato come gli avevano insegnato, aspettava il suo turno per attraversare il confine del silenzio che aveva già inghiottito i suoi compagni, uno dopo l’altro.
Col buio la paura aumentava e Giuseppe appoggiò la schiena contro la parete di terra, quella terra che aveva lavorato fin da bambino e gli era penetrata nelle pieghe della pelle, sotto i calli delle mani, nei polmoni. In quel momento gli sembrava che solo lei, la terra solida, leale, generosa, potesse dargli quel po’ di coraggio che gli serviva per vincere l’angoscia dell’attesa.
Nella confusione della sua mente tornarono le parole di una preghiera e cominciò a recitarla in silenzio, chiedendo al buon Dio “Una pallottola, una sola nel punto giusto”. Non gli importava di rimetterci una gamba, o un braccio pur di andarsene da quell’inferno.
Un fruscìo leggero catturò la sua attenzione. Il tempo di girare la testa e la sagoma di un topo gli passò veloce davanti ai piedi, poi scomparve nel buio. Un istante dopo la trincea si riempì dell’abbaiare furioso di Armando, il cagnolino della compagnia, lanciato all’inseguimento. Erano lì, a pochi metri e lui riusciva a distinguere la sagoma chiara del volpino.
Ora il ringhio di Armando era diverso, quasi un mugolio di soddisfazione. Per il topo era la fine.
Tornò il silenzio.

Giuseppe sollevò lo sguardo al cielo. Le stelle erano più brillanti, ripulite da una brezza leggera che proveniva da est, dalle linee nemiche. Portava con sé il profumo dolce del biancospino, lo stesso che aveva respirato avidamente, mescolato a quelli del fieno e della pelle di Ernestina nelle notti d’estate, quando tutto sembrava fermarsi e restavano soli sotto la coperta di stelle, con la testa che girava.
Ernestina! Da quando era partito non c’era stata una sola notte senza che il ricordo dei suoi occhi scuri e di quel sorriso, che faceva ribollire il sangue, non gli fosse stato compagno. Erano immagini così vive che, a volte, era come se gli prendessero la mano per guidarla dolcemente su quei capelli morbidi e poi lungo il collo sottile, fino ai seni sodi a indugiare sui piccoli capezzoli. Un ricordo che riportava nelle sue narici, ora piene solo dell’odore della polvere da sparo e della terra, la sensazione di quei profumi e la testa gli girava, proprio come in quelle notti d’estate.

Anche adesso a Giuseppe girava la testa e sentiva di nuovo il profumo del biancospino. Non pensò che era sfiorito da mesi. Non si accorse neppure del silenzio che aveva invaso la trincea e continuò a seguire quel ricordo, così vivo che gli sembrava di poterlo toccare. Non indossò la maschera antigas; non pensò che la morte potesse avere il profumo dolce del biancospino.

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