domenica 25 aprile 2021

25 aprile 2020

Gli piaceva quel piccolo alloggio, gli era piaciuto fin dai primi giorni di quasi sessant’anni prima. Questo pensava il signor Ferrero, seduto sul balconcino del soggiorno, al primo piano di quel vecchio palazzo.
Non era così per i suoi vicini, per cui tutto era “troppo”. Il soffitto troppo basso, i muri troppo spessi, i locali troppo piccoli e freddi e gli infissi troppo sottili. Ma loro erano giovani e si sarebbero affezionati col tempo.
Anche la famiglia del piano di sopra, all’inizio, non era soddisfatta. Se li ricordava bene, alle riunioni di condominio, sempre a lamentarsi, a discutere per il colore delle imposte, per l’ubicazione dei bidoni dell’immondizia. Gli era piaciuta la parola “ubicazione”, che dava un tono anche a quei litigi così sciocchi. Comunque lui andava a tutte le riunioni, e si divertiva un mondo. Guardava le facce, che di solito erano sorridenti, quando lo incrociavano sul pianerottolo, ma che in quelle occasioni diventavano scure e torve, o annoiate e infastidite. Però le discussioni finivano lì, senza strascichi, e il condominio tornava tranquillo.
Adesso non c’erano più state riunioni, e nemmeno incontri sul pianerottolo. Tutti stavano in casa, oppure sul balcone.
Guardò giù, oltre la ringhiera di ferro, verso la piazzetta laterale del paese, e poi su, lungo la stretta salita in pavé del centro storico. Non c’era nessuno, in strada, nemmeno i due vigili che controllavano chi portava a spasso il cane. Tutto vuoto, soltanto la musica usciva dalle finestre. Il sole era già caldo, in quella metà di aprile, ma i fiori non erano ancora arrivati nei vasi sui davanzali.
Sul balcone di fronte comparve la figura snella della signorina della panetteria. Sorrideva come sempre, e lo salutò come sempre, sforzando un po’ la voce per farsi sentire anche dalle sue orecchie deboli.
«Buongiorno signor Beppe, sto per andare a far la spesa. Ha bisogno di qualcosa?»
Lui ricambiò il sorriso e le chiese due cosette per la cena e il pranzo del giorno dopo. Per il resto era a posto: patate e cipolle ne aveva, pasta, fagioli in scatola, uova… sarebbero bastati per una settimana.
Viveva da solo, il signor Ferrero, da quando era morta sua moglie. I suoi figli erano ormai vecchi anche loro, e i nipoti erano quasi tutti lontani. Li sentiva al telefono tutti i giorni, i figli. Tra loro parlavano al computer, o su quei telefoni che sembravano dei televisori minuscoli. Il più giovane era andato a studiare a Berlino, addirittura. Quando glielo aveva detto sua nuora, le mani avevano cominciato a tremargli, e l’aveva guardata a bocca aperta.
«Stai tranquillo, papà» aveva detto lei gentile, «non è più come prima dell’89».
Il signor Beppe aveva stretto gli occhi. E cosa c’entrava l’89? Poi ricordò. Il muro, la Germania Est, la Russia comunista. Ah, baggianate!
Lui pensava al ’43, all’8 settembre del 1943.
Berlino era un posto strano, e i tedeschi, per lui, erano dei soldati, non gente normale. Camminavano impettiti, nelle loro perfette uniformi, anche sotto il sole rovente di Cefalonia. Li trattavano con educazione, ma senza rispetto, come dei servitori che possono sempre tornare utili.
Fino all’8 settembre. Allora gli italiani si erano trasformati in nemici, e in bersagli. Lui aveva visto i suoi compagni cadere sotto i colpi di quelli che sembravano alleati, era stato caricato su una nave, con un braccio rotto e lo stomaco squassato dai calci, e gettato a terra nella stiva. Vomitando sangue, aveva sentito i boati attorno a lui, e soltanto anni dopo aveva scoperto che erano le altre navi che esplodevano sulle mine e colavano a picco. Pensava di morire, ma non fu così.
Con le labbra spaccate dal sale e dalla sete, con gli occhi gonfi per i colpi e il dolore, era arrivato in fin di vita al campo di prigionia, in Polonia. Non ricordava nemmeno più quanto tempo era rimasto là, ma soltanto la gioia di quando i russi erano arrivati a liberarli.
Il signor Beppe scosse la testa. Non voleva pensare a quei giorni, ma era quasi impossibile non farlo. Alla Tv la gente si lamentava della “prigionia”, di quel che stava facendo il governo. Diceva che costringerli a casa era una “dittatura”, un “tradimento”, una “schiavitù”.
Il signor Ferrero fece una risatina, e due lacrime gli scivolarono sulle palpebre. Come cambia il significato di certe parole, pensò. Lui sì che aveva conosciuto un vero dittatore, uno che si metteva le mani sui fianchi e urlava da un balcone come il suo, parlando di conquiste e di potere invece che di morti e miseria. Lui sì che conosceva il vero tradimento, la vera prigionia.
Fece un respiro profondo e si aggrappò alla ringhiera per alzarsi. Sotto di lui la strada lastricata aspettava che piedi intorpiditi tornassero a calpestarla, che gambe ferme da troppo tempo si riprendessero quello spazio.
Tra poco sarebbe arrivato il 25 aprile, il numero settantacinque, forse l’ultimo per lui. E anche questa volta avrebbe ringraziato tutti quelli che avevano lottato, che si erano sacrificati per riportare l’Italia alla libertà.
Il campanello squillò due volte e lui vide, sotto il balconcino, il sorriso della panettiera, che gli stava portando la spesa.
Ah, come si stava bene in quell’Italia libera!

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