martedì 24 maggio 2016

XXIX Salone del Libro

La XXIX edizione del Salone del Libro di Torino si è conclusa ormai da una settimana. Cosa mi resta di quei giorni intensi, pieni? Sicuramente l’emozione di essere stata, per la prima volta, dall’altra parte di un bancone, di avere avuto appeso al collo il Badge di Espositore.
Con la Echos Edizioni abbiamo vissuto il momento in cui il Salone non era altro che una serie di stand vuoti, un guscio di sostegni ignifughi, di banchi lisci e lucidi, di moquette rivestita di cellophane per evitare i solchi dei carrelli colmi di scatoloni.
Entrando dal portone Espositori, abbiamo respirato un’aria da “dietro le quinte”, abbiamo scaricato centinaia di volumi che, nei cinque giorni seguenti, sono stati sfogliati, letti, acquistati e rimpiazzati da copie fresche di ristampa.
Le emozioni di quei giorni sono andate al di là della mia immaginazione; il mio stupore non è stato quello di assistere alla kermesse libraria più importante dell’anno da un nuovo punto di vista, ma di scoprirne lati imprevedibili, che tenterò qui di elencare, certa di tralasciarne qualcuno di memorabile, che resterà comunque nei miei ricordi.
Innanzitutto il contatto diretto tra gli entusiasti autori Echos e il pubblico, pronto all’ascolto e curioso di scoprire nuove trame e nuovi stili.
Gli incontri con altri editori, nuovissimi, emergenti o storici, come la centenaria Giunti, fondata nel 1497. La grave quantità di sedie a rotelle, di anziani e di giovanissimi, che percorrono agevolmente i corridoi, aiutati dalle inesistenti barriere architettoniche e invogliati da attività come la lettura e l’ascolto, facili e appaganti.
Gli incontri con gli scrittori, non nelle sale superilluminate, seduti ad una cattedra, ma tranquillamente a passeggio per gli stand, sicuri di essere magari riconosciuti ma non importunati da chi è in visita e che, come loro, forse sta soltanto cercando un’atmosfera. Antonio Manzini che passa davanti al mio stand e risponde al mio saluto (pensando: “ma chi diavolo è questa?”) con un cenno del capo. Massimo Tallone che mi porta allo stand della Golem per presentarmi qualcuno; io che lo seguo dubbiosa e lo vedo accennare ad un signore anziano, seduto dietro il banco: «Ti presento Pupi Avati», e io tendo la mano incapace di dire altro che «Piacere, Maria Teresa».
La presentazione della nuovissima, eppure già storica, casa editrice La nave di Teseo, con il grande assente Umberto Eco, ospite d’onore scomparso quando tutto era già stato organizzato.
Giovanni Allevi che, con il suo solito fare ridanciano, al limite dell’assurdo, risponde alle domande nello stand della Rai, davanti ad una folla curiosa, in attesa di farsi autografare il suo libro.
La piacevolezza delle code educate e tranquille, senza sorpassi o spintoni, di chi attende di raggiungere la porta di una grande sala, sapendo che forse non ci sarà più spazio.

Certo, non è stato tutt’oro, ci sono stati momenti meno felici, ma si sono persi e non li ricorderò.
Il momento più bello, però, è stato a fine Salone. I portoni sono chiusi, la folla è uscita, gli stand sono ormai mezzi vuoti e i carrelli colmi di scatoloni ricominciano a varcare in senso inverso il portone. Attraverso il corridoio e mi affaccio allo stand della Sellerio, che è davanti al nostro. Chissà se mi vendono l’ultimo di Malvaldi fuori tempo massimo? Chiedo al commesso che sta inscatolando quei titoli; lui si alza, ed è proprio Malvaldi.
«Se mi fermo mi addormento» dice quasi per giustificarsi. Alla cassa una signora che non lo ha riconosciuto mi chiede quale sia il più bello tra i suoi libri. «Milioni di milioni» rispondo sicura, «l’ho già letto due volte e adesso aspetto il seguito», concludo ammiccando verso di lui. «Devi chiedere a mia moglie, è lei che ha inventato la trama» e ridacchia.
Sono le undici passate, le luci si stanno spegnendo, gli stand sono tornati i gusci vuoti che erano sei giorni fa. Siamo esausti, i nostri piedi chiedono di uscire dalle scarpe, le schiene vogliono un letto, ma sono già certissima: sentirò molto presto la nostalgia del Salone. 

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