mercoledì 25 novembre 2015

Mercoledì 2 dicembre, lezione-laboratorio di scrittura

Lezione-laboratorio di scrittura narrativa
Chi ben comincia è a metà dell'opera
una serata alle prese con l'Incipit e i suoi misteri,
a Giaveno
mercoledì 2 dicembre
dalle ore 18, 00 alle ore 21,00

La lezione verterà sulle regole e sulle astuzie per cominciare nel modo più efficace un romanzo o un racconto.
Alterneremo alla teoria, letture di autori e esercitazioni pratiche.



Ho un sacco di idee, ma non so da dove cominciare.
Il mio romanzo è tutto lì, nella testa, eppure non riesce ad uscirne.
Ho scritto già un paio di racconti, ma mi sembrano completamente slegati tra loro.
Ci sono delle regole per un ottimo inizio?
Il mio problema è il titolo: mi sembra sempre troppo banale.
Se avessi già il primo capitolo, potrei scrivere il resto del romanzo in due settimane.









Le prime parole del nostro romanzo sono la nostra presentazione, la stretta di mano con il lettore, il sorriso, l’occhiolino: se catturiamo la sua attenzione fin dalle prime righe, non ci ci abbandonerà più.



Il costo del laboratorio è di 30 euro

Per informazioni ed iscrizioni:
mariateresa.carpegna@gmail.com

lunedì 23 novembre 2015

Laboratorio di scrittura concluso

Il laboratorio di scrittura narrativa si è concluso con mia grandissima soddisfazione. 
Un grazie a tutti i partecipanti, che hanno collaborato tra loro con molto entusiasmo e hanno arricchito non soltanto la mia giornata, ma anche la mia esperienza.
Spero vivamente che tutti voi abbiate tratto energia e ispirazione da questo giorno di intenso lavoro. 
Un grazie particolare va a Alice Basso, che con il suo Imprevedibile piano della scrittrice senza nome ha dato spunti e consigli ai futuri scrittori. 
Grazie anche ad Enrico Pandiani e ai suoi Incipit folgoranti.

Ci vediamo al prossimo laboratorio.

mercoledì 4 novembre 2015

Laboratorio di scrittura a Giaveno, 14 novembre

Laboratorio di scrittura narrativa
Sabato 14 novembre
a Giaveno


Nel corso del laboratorio alterneremo lezioni teoriche e letture di brani d’autore a momenti di scrittura individuale.
Insieme cercheremo di scoprire quali sono le tecniche per immergersi nella scrittura e trovare la spinta necessaria per creare con la narrazione
Esamineremo gli strumenti per realizzare un'idea e strutturarla in una trama, scopriremo le metodologie per superare il blocco dello scrittore, per seguire un tema prefissato o invece lasciare andare la fantasia; individueremo i modi per dare un titolo o per trarre da esso ispirazione e per trasformare un tema in parole adatte.


Il laboratorio è aperto a tutti, ma è adatto in particolare a chi vuole trasformare un semplice passatempo in una vera attività. 

Orario del laboratorio:
Dalle 9,30 alle 12,30;
Pausa pranzo
Ripresa: dalle14,30 alle 17,30.

Costo del laboratorio: 50,00 euro

Per informazioni e d iscrizioni:
mariateresa.carpegna@gmail.com




sabato 3 ottobre 2015

Sergio Vigna, Trabant 89, Araba fenice

Ci sono momenti in cui la storia ci passa accanto e noi quasi non ce ne accorgiamo; scopriamo l’importanza di quanto è accaduto tempo dopo, perché talvolta i grandi eventi risultano tali solo se visti da lontano. Chi viene coinvolto nel vivo spesso non si rende conto della portata del cambiamento cui ha assistito.
Altre volte invece la storia si annuncia lentamente, gli eventi fermentano fino a scoppiare e chi li guida, ma anche chi semplicemente li osserva, intuisce già prima la portata dell’impatto che causeranno.
Prefazione di Margherita Oggero
È quanto accade, forse inconsapevolmente, ai protagonisti dell’ultimo romanzo di Sergio Vigna, Trabant 89.
Marisa e Guglielmo, coppia non del tutto affiatata, sa che i paesi dell’est Europa, in quell’esplosivo 1989, stanno cambiando radicalmente. Lui, filosovietico da sempre, vuole vedere la Germania Est, per comprendere di persona quanto ci sia di vero in quel che legge sui quotidiani. Lei, amante del campeggio, accetta non del tutto di buon grado la vacanza nella Berlino ancora spaccata dal muro, conscia delle difficoltà burocratiche e logistiche che dovrà affrontare.
Il viaggio è effettivamente complicato dai timbri, dai posti di blocco e dai controlli, ma le scoperte valgono gli ostacoli. Quello che la coppia, però, non aveva previsto è l’incontro in una birreria con Annerose, una ragazza che vuole fuggire dalla città per andare ad Ovest.
Questa volta è Guglielmo a mettere un freno all’entusiasmo di Marisa: Annerose sembra poter far crollare le sue certezze riguardo ai paesi del blocco sovietico, che lui immagina come una Terra di unione e prosperità. Per Marisa invece, il cui istinto materno l’ha già proiettata nel ruolo di salvatrice, la giovane donna va aiutata, anche per dimostrare al marito in che razza di paese l’ha condotta.
La situazione diventa sempre più complessa, man mano che il romanzo procede, trascinando il lettore in una spy story in cui l’azione è supportata dalle molte emozioni e dai sentimenti: Marisa e Guglielmo, al termine dell’avventura, non saranno più gli stessi.
Sergio Vigna si destreggia abilmente tra intrighi e tattiche doppiogiochiste. I personaggi si muovono agilmente in ogni situazione, dalla più lenta trafila burocratica ai rapidi inseguimenti.

Un romanzo che fa rivivere un periodo storico fondamentale del Novecento, togliendo la patina degli anni e dell’esperienza agli eventi narrati e mostrandone il vero aspetto disincantato e realistico. 

La recensione dell'Araba Fenice

mercoledì 23 settembre 2015

Simon Rowd, Drow, Mondadori Electa

Siamo a Skittburgh, una città qualunque del nord America.
Protagonisti di questa storia sono degli studenti universitari; c’è una lei, Sophie, bella ma timida, e c’è un lui, Jimmy, spigliato e disinvolto amico di sempre.  Si potrebbe pensare che ci sia qualcosa di più tra loro, ma non è così, c’è un profondo legame che forse supera la semplice attrazione fisica. Per questo lui può confidarle tutte le sue avventure senza paura di renderla gelosa, anche perché le lezioni universitarie sembrano il luogo adatto per fare conoscenze interessanti e mentre lei ha un carattere più chiuso, Jimmy non si rifiuta nessuna possibilità, passando da una storia all’altra con leggerezza ed allegria. 
Eppure quando entra in scena Eric, uno splendido ragazzo che in aula si siede per caso accanto a Sophie, ecco che Jimmy comincia a diventare sospettoso. D'altronde Eric non è così limpido:  il suo carattere ombroso, cupo lo rende ancora più affascinante e Sophie, guardando nei suoi occhi profondi, vede qualcosa di cui si innamora perdutamente.
Fin qui potremmo credere di avere a che fare con un romanzo sentimentale, in cui dei giovani adulti si trovano alle prese con le prime problematiche di coppia. Lei, lui, l’altro, la scuola, i rapporti difficili con i genitori. Sì, c’è tutto questo, ma non è che semplice contorno, uno sfondo per il vero fulcro della trama. Tutto comincia a rivelarsi quando Eric esce di notte. Non va in un locale, magari per trovare un’avventura alternativa, ma nell’oscurità della notte cerca qualcosa, con una smania che nemmeno lui comprende. Lo troverà nei bassifondi: un combattimento nella gabbia, uno di quegli scontri violenti, dove si scommette non solo sul vincitore, ma spesso sul sopravvissuto.  Cosa lo spinge a questa violenza, perché questa aggressività istintiva di cui egli stesso ha timore? E perché nel buio totale egli si trova perfettamente a suo agio?
L’unico che ha capito è Jimmy, il grande amico di Sophie. Lo osserva, lo scruta, perché lui sa quale energia si cela dentro le sue membra. Eric è un elfo, esattamente come Jimmy, ma di una natura ben diversa; le loro caratteristiche sono simili, ma Eric ama il buio, la notte, la lotta, perché è un drow, un elfo oscuro.
Per scoprirne di più, e per poter accettare questa situazione, chiederanno aiuto al professor Hauffman e questo incontro sarà l’inizio di una serie di colpi di scena che trascineranno il lettore fino in fondo al libro, coinvolgendolo a tutto tondo nei sentimenti dei protagonisti e nelle loro avventure a ritmo sempre più frenetico.

Drow è un romanzo che cambia il genere fantasy, perché le creature soprannaturali non agiscono in un mondo “altro”, non vivono in un villaggio in mezzo alle montagne, lungo una forra boscosa, bensì in una normale città occidentale.
Simon Rowd cattura il lettore con uno stile veloce ma ricco, una prosa che si adatta ai ritmi differenti delle scene. Leggendo Drow vi dimenticherete di essere seduti nella vostra poltrona e vi sembrerà di dover correre nel buio della notte, sentendo il sibilo delle frecce che scattano al vostro passaggio. 

lunedì 14 settembre 2015

Pieces of heaven, di Roberta Novarino

Il venticello rinfresca il clima caldo, accarezzando con tocco leggero i fili d’erba, onde astratte che si fondono con quelle del laghetto, nel quale si specchia l’imponente massiccio del Monte Rosa.
È un giorno qualunque di fine agosto: stormi di passeri creano nel cielo azzurro figure astratte, muovendosi al ritmo di una musica diffusa soltanto tra le nuvole. Il fruscio delle foglie appena scosse dal vento si confonde con lo scrosciare del Lys, che passa al di sotto del caratteristico ponticello in legno: in lontananza fa capolino, tra le imponenti fronde di conifere, una delle torrette del castello appartenuto a due generazioni della famiglia Savoia.
Alcune persone passeggiano sulla carrareccia che si inoltra sino a Gressoney la Trinité, altre osservano silenziosamente il paesaggio che li circonda, godendosi gli ultimi tiepidi raggi pomeridiani.
Il sole gioca a nascondino con il Liskamm, rendendo la neve dei grandi ghiacciai di una tonalità rosea: poche nubi sulle sfumature del rosso contornano il cielo, creando un contrasto di chiaro scuro senza paragoni.
I vecchi stadel sono ora popolati dalle nuove generazioni, che ritornano nel segno del passato e dei propri avi: le rustiche abitazioni in legno, con i tetti coperti per mezzo di grandi lose, ben si adattano a questa vallata selvaggia e inviolata.
La città di Gressoney Saint Jean è sì cresciuta, ma l’atmosfera che si respira, come l’aria fresca aromatizzata dall’odore pungente di muschio e resina, è sempre la stessa: su quei prati, una bambina dai lunghi capelli biondi gioca con un enorme pallone rosso…
Nello stesso luogo, qualche stagione dopo, una ragazza siede sulle rive del laghetto, stilografica alla mano, per imprimere su un foglio di carta, per mezzo di parole, il suo tramite preferito, le sue emozioni; in fondo, quel legame con il suo passato, con un piccolo angolo del suo paradiso, è e sarà per sempre indissolubile.




lunedì 7 settembre 2015

L'aquilone, di Linda D'Addio

Il nonno riposava all’ombra fresca e profumata del pergolato. Le mani, nodose e torte dall’artrite, pendevano mollemente dal bordo del bracciolo della sedia a rotelle.
Dalla cucina che affacciava sul cortile proveniva il familiare rumore delle antine della credenza aperte e poi richiuse, il movimento dei tegami e lo scorrere dell’acqua nel lavandino.
Mentre preparava cena, sua figlia Emma, guardò verso il giardino e accarezzò con lo sguardo le tre figure silenziose sedute lì fuori: i genitori anziani e la sua bimba di sette anni.
Suo padre aveva il capo leggermente piegato da un lato: lo sguardo spento seguiva il ronzare sommesso delle api intente a bottinare tra i fiori del glicine. Seduta accanto a lui stava la nonna, odorosa lei stessa come il sacchettino di lavanda posto nel cesto del cucito che teneva in grembo; era china su un rammendo che di tanto in tanto posava per carezzare ora la mano avvizzita del marito, ora la pelle liscia e tenera delle gambe della nipotina, allungata sulla sdraio, spensierata, come lo si può essere solo a quelle età, intenta a soffiare nelle bolle di sapone.
D’un tratto, gli occhi grigio azzurri del nonno, a dispetto dell’Alzheimer incalzante, ripresero colore e vivacità e si rivolsero alla moglie porgendole una richiesta silenziosa.
Erano passate già alcune settimane da quando aveva pronunciato l’ultima parola, “Tilde”, la sua compagna da sempre, per poi ritirarsi in un suo mondo muto. Ogni giorno più lontano dalla realtà, cercava caparbiamente di aggrapparsi ad essa attraverso mozziconi di ricordi adesi l’uno all’altro come le bolle di sapone di Alice: legame delicato, inconsistente, pronto ad evaporare come un sogno al primo alito di vento.
Intanto, Alice volse il capo verso casa e gridò:
«Mamma! Abbiamo fame!»
«Ma è quasi ora di cena» contestò la mamma dalla cucina, «comunque, ok, vi porto qualcosa».
Pochi minuti dopo arrivò con succo di frutta e paste di meliga. Con l’angolo del grembiule pulì uno spazio sul tavolo da giardino, per posare spuntino e bicchieri, dopo aver spostato con il gomito le cesoie, alcuni bastoncini di bambù e i guanti da giardinaggio rimasti lì dimenticati.
Il nonno allungò la mano verso il tavolo e Tilde, premurosamente, gli porse il bicchiere ma lui fece cenno di no col capo.
«Vuoi un biscotto?». Ma ancora un no, deciso, infastidito.
«Cosa vuoi nonnino?» disse Alice e lui con le dita indicò le cannette di bambù.
«Queste?» chiese la bambina porgendogliele. Il nonno sorrise, poi si tese verso il cesto da cucito e prese forbici e filo: dispose le bacchette a croce e cercò di legarle maldestramente.
Tilde gli chiese con dolcezza cosa volesse fare e lui, inaspettatamente, pronunciò a fatica: «Carta».
A quella parola inattesa, Alice balzò in piedi, mentre la nonna, ora in piedi anche lei, euforicamente, quasi gridava: «Un aquilone! Vuoi fare un aquilone!».
Il viso del nonno si accese in un sorriso.
«Sai che il nonno» disse Tilde alla bimba, «che ha fatto il maestro per tanti anni, insegnava ai suoi allievi la geometria costruendo aquiloni? Con la carta spiegava come son fatti i triangoli e i rombi e anche gli angoli retti! Li studierai anche tu più avanti. Ora vai dalla mamma e chiedile, per piacere, carta sottile, come quella che c’è nelle scatole delle scarpe, e prendi anche lo scotch, la pinzatrice e anche i tuoi pennarelli».
Alice schizzò verso casa per tornare poco dopo con tutto il materiale.
La nonna si mise al lavoro: il nonno annuiva; la bimba un po’ aiutava, un po’ saltellava elettrizzata. In un niente, un grande aquilone, con i quadranti decorati da Alice e la coda di anelli di carta, fu pronto.
Intanto si stava alzando la fresca brezza del tramonto: sembrava venuta apposta per sollevare la loro opera. Qualche tentativo incerto e poi ecco che carta, disegni, ricordi, desideri e amore volarono in alto, fremendo al vento come foglie di pioppo, trattenuti appena dal filo sottile.
«Mamma! Corri! Vieni a vedere i triangoli volanti!» gridava la bambina  battendo le mani.
In cielo, l’aquilone colorato inseguiva nuvole rosa e voli di cornacchie dirette ai posatoi notturni.
Sul tavolo sotto il pergolato brillavano leggermente le impronte iridescenti delle bolle di sapone.
Il nonno guardò in alto, lontano e rise.                                                                                                                     

giovedì 3 settembre 2015

Ciao, di Mauro Lenta

Ciao,
se hai un minuto, ti racconto una cosa straordinaria che mi è capitata.
Mentre passeggio in mezzo a un prato, godendomi la solitudine e la tranquillità, osservo. Ci sono fiori ovunque, alcuni all’imbrunire si chiudono mentre altri si aprono.
Sai, ci sono fiori per le farfalle diurne e anche fiori per le farfalle notturne.
Intanto guardo i caprioli che saltano, i leprotti che corrono, gli scoiattoli che arrampicano.
Se stai attento puoi ancora sentire i picchi che battono, e vedere gli aironi che pescano, le poiane che cacciano.
Oh, forse il minuto è passato, ma ho ancora alcune cose da dirti e, se hai ancora un poco di tempo, non ti dispiacerà di avermi ascoltato.
Vedi con me la biscia d’acqua che fruscia, un topolino che scappa, una ghiandaia che gracchia e, mentre il cielo si fa scuro, emergono le stelle, arrivano le lucciole, i grilli cantano e passa un pipistrello.
E, finalmente, la cosa straordinaria: io sono qui, innamorato, legato per sempre allo sguardo e al sorriso di una foto in bianco e nero.
Come! Non credi  valesse la pena di ascoltarmi?
Oppure non trovi niente di straordinario nel mio racconto?
Mi dispiace, amico mio, perché non c’è niente di più straordinario nell’osservare ciò che ci sta intorno; e, per i fortunati come me, attraverso gli occhi dell’amore.
Ma vedo che sei impaziente, c’è qualcosa che ti urge, perciò ti ringrazio, per il tempo che mi hai dato.
Ti saluto e ti lascio con una preghiera: se vuoi, ricordati di me, almeno una volta, e prova a guardare il mondo coi tuoi occhi innamorati.


martedì 1 settembre 2015

Prima, di Gabriella Tessa

L'ultima sera una luna generosa rischiarò a giorno il villaggio, come a voler regalare altro tempo al commiato di Salif con la sua terra.
A quell'ora in giro non c'era anima viva. Anche i suoi dormivano da un pezzo. Solo Mira continuava a rigirarsi nel letto; per lei non doveva essere facile. La aveva osservata a lungo mentre trafficava per la cucina con l'aria assorta. Aveva seguito le sue piccole mani che si muovevano svelte tra le pentole, intente a rimestare la loro ultima cena insieme per poi posarsi quiete sui volti dei bambini in tenere carezze. Aveva sentito una fitta di gelosia, ma  era riuscito a resistere all'impeto di volerla tutta per sé. Sapeva bene che la sua parte la avrebbe avuta a suo tempo, nella segreta intimità del loro letto. Mira sapeva essere generosa come nessun altra donna, era sicuro che quella sera avrebbe saputo consolarlo e accollarsi un po' di pena per toglierla a lui. E così era stato.
La notte era silenziosa, attraversata soltanto da qualche lieve refolo di vento e dal latrato dei cani che si perdeva in fondo ai campi di sorgo. Quella quiete gli entrò piano piano nella testa insieme alle sagome scure delle baracche  e ai ciuffi d'erba rinsecchita che spuntavano qua e là nel bel mezzo della strada: un quadro disadorno da appendere in un luogo chissà dove a ricordo della sua terra. I volti di Mira e dei figli, al contrario, se ne stavano chiusi al sicuro nel portafogli, a portata di mano per i futuri momenti di nostalgia.
L'autobus per Khartoum sarebbe partito all'alba. Quello da Kasala a Kufrah era il pezzo di tragitto più semplice. Aveva raggranellato abbastanza denaro per assicurarsi un buon pezzo di viaggio a basso rischio; le complicazioni sarebbero cominciate a Kufrah, dove da semplice passeggero si sarebbe trasformato in clandestino, pigiato in uno dei camioncini di derrate diretto a Ajdabiya.  Da quel punto in poi il viaggio era tutto da inventare.
Mancava solo una manciata di ore all’alba. Salif voltò le spalle alla finestra e cominciò ad ispezionare la piccola stanza avvolta nella penombra. I suoi occhi si posarono sui contorni dei pochi mobili addossati alle pareti. A un certo punto gli sembrò di scorgere qualcuno sul vecchio divano. Si avvicinò cauto, tastò con la mano aperta i grossi cuscini sfondati al centro e capì che si era sbagliato. Allora si sedette proprio nel mezzo, dove i bambini, stretti tra lui e Mira, erano soliti cominciare baruffe tra strilli e risa, che finivano immancabilmente con qualche ruvido scappellotto. Chiuse gli occhi per non farsi scappare nulla dalla mente, mentre respirando profondamente si riempiva le narici dell'odore della sua casa: profumo di spezie e di sapone da bucato, misto all’odore di terra e di fumo che salivano dalla strada. Questo era tutto ciò che desiderava portarsi appresso, insieme ai quattro indumenti piegati con cura dalle piccole mani di Mira sul fondo di una valigia in finta pelle. 

Gabriella Tessa è insegnante e vive a Giaveno.
Ha collaborato con la raccolta di racconti Venti di montagna, Echos edizioni

giovedì 27 agosto 2015

Corso di scrittura umoristica

CORSO di SCRITTURA UMORISTICA
con Massimo Tallone
dal 23 settembre 2015

Contenuti del corso
Obiettivo del corso: di fornire strumenti utili a che intende specializzarsi nella scrittura umoristica. Fra le finalità previste vi è la creazione di un blog umoristico e collettivo, capace di ‘colpire’ a 360 gradi sul mondo d’oggi.

Programma
Massimo Tallone fornirà i ferri del mestiere, indicherà metodi e malizie e soprattutto cercherà di infondere il coraggio di dare l'assalto alla pagina bianca senza l'ansia scolastica, senza il tormento del giudizio, senza quell'eccesso di sfiducia in se stessi che spesso è la causa dell'impotenza espressiva.
Programma:
§  Che cosa voglio scrivere: l’obiettivo deve essere chiaro
§  Dal soggetto al plot, dalla fabula all’intreccio
§  La traccia, le schede dei personaggi, i luoghi: gli appunti
§  Il testo breve: battuta, parodia, parafrasi
§  Il testo breve: ironia, sarcasmo, frecciata
§  Satira e commento salace
§  Le malizie del testo: la frase, il periodo, il raccordo, la sintassi
§  Il Giudice Interiore e l’umorismo
§  Grammatica e punteggiatura: consigli pratici (dai punti interrogativi alle sigle)
§  Varianti umoristiche: romanzo, racconto, saggio
§  Registro, stile, tono
§  Le parole e le cose; la proprietà; il dettaglio che illumina; l’allusione
§  Revisione e rilettura, correzione ed editing
§  Il libro, il blog, radio e televisione: prospettive editoriali e di collaborazione

Docente: Massimo Tallone
Sede: Torino, via Gioberti, 8
Struttura del corso: otto incontri da due ore l’uno, il mercoledì, dalle 18,30 alle 20,30

Costo: euro 244,00 a persona (IVA inclusa)

Per informazioni ed iscrizioni:

In collaborazione con Maria Teresa Carpegna, editor freelance 
e-mail: mariateresa.carpegna@gmail.com

Il profumo del biancospino, di Claudio Rolando

Alla fine la notte era scesa su quel pezzo di terra, gli assalti erano cessati e ora ristagnava solo l’odore acre della polvere da sparo, mescolato a quello dolciastro del sangue.
Appoggiato al bordo della trincea, Giuseppe sporse appena la testa per uno sguardo veloce. La luna non era ancora sorta e all’incerto chiarore delle stelle  le postazioni nemiche formavano una lunga linea scura. In mezzo, il silenzio immobile del campo di battaglia. Un istante solo e tornò a sedersi, in attesa.
Da quanto tempo era iniziato quel macello? Due, tre giorni? Forse di più. Non lo ricordava. Ormai in quella trincea e in quel pezzo di terra, punteggiato di rocce frantumate e buche delle bombe, i tempi erano scanditi solo più dal ritmo degli assalti e poi dai gemiti dei feriti, dal rantolo dei moribondi e dall’andirivieni silenzioso degli uomini con la croce rossa sull’uniforme. 
Non sapeva che giorno fosse e neppure se lo domandava. Solo aspettava. Obbediente e disciplinato come gli avevano insegnato, aspettava il suo turno per attraversare il confine del silenzio che aveva già inghiottito i suoi compagni, uno dopo l’altro.
Col buio la paura aumentava e Giuseppe appoggiò la schiena contro la parete di terra, quella terra che aveva lavorato fin da bambino e gli era penetrata nelle pieghe della pelle, sotto i calli delle mani, nei polmoni. In quel momento gli sembrava che solo lei, la terra solida, leale, generosa, potesse dargli quel po’ di coraggio che gli serviva per vincere l’angoscia dell’attesa.
Nella confusione della sua mente tornarono le parole di una preghiera e cominciò a recitarla in silenzio, chiedendo al buon Dio “Una pallottola, una sola nel punto giusto”. Non gli importava di rimetterci una gamba, o un braccio pur di andarsene da quell’inferno.
Un fruscìo leggero catturò la sua attenzione. Il tempo di girare la testa e la sagoma di un topo gli passò veloce davanti ai piedi, poi scomparve nel buio. Un istante dopo la trincea si riempì dell’abbaiare furioso di Armando, il cagnolino della compagnia, lanciato all’inseguimento. Erano lì, a pochi metri e lui riusciva a distinguere la sagoma chiara del volpino.
Ora il ringhio di Armando era diverso, quasi un mugolio di soddisfazione. Per il topo era la fine.
Tornò il silenzio.

Giuseppe sollevò lo sguardo al cielo. Le stelle erano più brillanti, ripulite da una brezza leggera che proveniva da est, dalle linee nemiche. Portava con sé il profumo dolce del biancospino, lo stesso che aveva respirato avidamente, mescolato a quelli del fieno e della pelle di Ernestina nelle notti d’estate, quando tutto sembrava fermarsi e restavano soli sotto la coperta di stelle, con la testa che girava.
Ernestina! Da quando era partito non c’era stata una sola notte senza che il ricordo dei suoi occhi scuri e di quel sorriso, che faceva ribollire il sangue, non gli fosse stato compagno. Erano immagini così vive che, a volte, era come se gli prendessero la mano per guidarla dolcemente su quei capelli morbidi e poi lungo il collo sottile, fino ai seni sodi a indugiare sui piccoli capezzoli. Un ricordo che riportava nelle sue narici, ora piene solo dell’odore della polvere da sparo e della terra, la sensazione di quei profumi e la testa gli girava, proprio come in quelle notti d’estate.

Anche adesso a Giuseppe girava la testa e sentiva di nuovo il profumo del biancospino. Non pensò che era sfiorito da mesi. Non si accorse neppure del silenzio che aveva invaso la trincea e continuò a seguire quel ricordo, così vivo che gli sembrava di poterlo toccare. Non indossò la maschera antigas; non pensò che la morte potesse avere il profumo dolce del biancospino.

lunedì 17 agosto 2015

La dannata infamia, di Roberto Varrone

La scuola elementare di Cegno, liberata dalle grida allegre degli alunni, si preparava ad ospitare le grida lancinanti dei partigiani che subivano botte e torture. Li portavano lì da tutta la valle, man mano che venivano catturati. Erano ammucchiati in due classi al primo piano. Quando quei ragazzi furono messi in fila a spintonate e a calci per essere trascinati fuori, alcuni di loro pensarono finalmente di essere fucilati ponendo così fine a quella orribile sofferenza. Altri invece, avendo subito un po’ meno atrocità, si illusero a momenti alterni, che sarebbero stati liberati.
Uno solo fu liberato.
Luigi faceva il meccanico della manutenzione alla polveriera di fondovalle, era stato esentato dal servizio militare, in quanto chi lavorava in quel tipo di aziende, era già militarizzato. Troppo spudoratamente in fabbrica si era lasciato andare a dure critiche contro il caporeparto, fascista di comodo locale. Gli arrivò all’orecchio che il suo capo lo aveva denunciato come disfattista ed antifascista. Fece appena in tempo a rifugiarsi sulle vicine montagne. Raggiunse “il Rosso” di cui era cugino. Luigi non sapeva quasi nulla, giusto il nome del comandante e lo disse:
«Franco, si chiama Franco, lo chiamano comandante Franco e sta al Chargé».
Poi un pianto a dirotto, inconsolabile. Lo avevano torturato come gli altri, ed avevano continuato anche dopo la rivelazione del nome e del luogo, pensando che potesse sapere altro. Quando capirono che nulla di più avrebbero potuto estirpare da quel corpo martoriato, gli dissero sorridendo:
«Bravo ti sei guadagnato la libertà, hai visto che a parlare c’è sempre da guadagnare!».
Continuarono a sbeffeggiarlo per un po’, ogni tanto qualcuno passava nel corridoio dove Luigi era seduto su di una panca di legno scuro, scuro come gli ematomi che gli coprivano il viso sotto un casco di capelli arruffati e scuri, così come  le mani tumefatte, la destra senza unghie, gli risparmiarono quella del pollice, forse per caso. Ora per un nome, per un solo nome era diventato un infame traditore, non veniva neanche più controllato per timore che fuggisse.
Ritornò un ufficiale:
«Bene Luigi, vai pure a casa, quella è la porta, accomodati, prima che cambi idea».
L’ufficiale gli aprì la mano e gli mise nel palmo le unghie strappate. Quasi automaticamente chiuse la mano trattenendo quei cimeli che gli appartenevano. Luigi poi divenne terreo e biascicò:
«Ma come qui fuori, adesso? Proprio qui, così capiranno tutti che ho parlato!».
Sotto una frangia di capelli scuri sporchi e umidi i suoi occhi spalancati denunciavano terrore.
«Beh, questi sono affari tuoi. Noi ti liberiamo, siamo di parola. Non lo sapevi che i partigiani sono cattivi. Che uccidono i traditori. Vedi noi siamo migliori, assai più bravi! Infatti ti abbiamo restituito persino le tue unghie» disse beffardo, quello che le aveva strappate.
Gli uomini del gruppo in partenza,  ancora non avevano idea a quale gradino di abiezione umana stavano assurgendo. Salirono in ventisei sul camion. Percorsero un breve viaggio a monte, verso Forno di Cegno. Giunti che furono, vennero fatti smontare in malo modo. Quei ragazzi si sentirono dei morti viventi, con liberazione i più pessimisti, e con terrore i più ottimisti. I rami intorno a loro proponevano delle gemme che un freddo di ritorno aveva congelato, molte di loro non ce l’avrebbero fatta, qualcuna, poche sarebbero sopravvissute, ma solo per un evento meteorologico, non per la ferocia umana, che invece si apprestavano a subire quei ventisei esseri umani. Ventisei vite in procinto di diventare ventisei morti. Nulla e nessuno poteva salvarli. Tutti sperarono in un rinsavimento umanitario degli ufficiali nazisti e fascisti, che invece fecero a gara, per dimostrare di essere feroci e duri, vinsero la gara per un soffio gli autoctoni italiani. Vinsero alla fine del tormento a cui avevano sottoposto quei giovani ormai già carne da macello.
Mentre Luigi si trascinava per la strade di Cegno, con un piede e una mano senza unghie, ogni volta che spostava il piede destro avanti, per portarsi verso casa sua, irraggiungibile in quelle condizioni, un dolore gli attraversava il cervello. Un altro dolore meno sanguinolento gli uccideva il cuore, ed era quello di avere tradito, di non avercela fatta a sopportare il pur atroce dolore. Eppure Luigi camminava lo stesso, le lacrime uscivano senza che lo volesse, e quando il dolore fisico sembrava lenirsi, riappariva quello mentale. E intanto senza rendersi conto continuava a stringere le sue unghie ancora intrise del sangue rappreso. Luigi, mise le braccia conserte, ad estrema difesa di se stesso, e questo gli ricordò, quando bambino, si poneva nella stessa posizione perché genitori gliele suonavano per qualche marachella. Si commiserò, avrebbe dato la vita per un atto di comprensione e di affetto, da parte di chiunque. Era solo, maledettamente solo, sicuramente la mamma gli avrebbe elargito una carezza, forse dicendogli:
«O por al me cit, cosa a l’an fate?».
Ogni tanto quasi a fil di voce sussurrava:
«Mamma, mamma, sono un disgraziato, non mi vorrai più neanche tu». 

Le lacrime sgorgavano con ancora più forza di prima, la fronte rilasciava gocce di sudore che si mescolavano alle prime. Quell’incredibile odissea, si protrasse per poco più di un’ora. Luigi, giunse infine a Pontelegno, dove vi era il ponte sul Belleva, il più alto della valle, la sua casa era ancora molto, troppo lontana. Il giovane realizzò in un attimo che la sua casa non era quella lontana, dove forse la mamma lo pensava sorridendo. La sua casa ora era la morte, quella che raggiunse un attimo dopo essersi lanciato dalla spalletta ed essersi fracassato la testa contro le rocce sottostanti. “Il Rosso”  che aveva l’aspetto del traditore per la scarsa capacità di rapportarsi agli altri, era morto il giorno prima salvando parecchi compagni, quasi da eroe. Luigi, su cui tutti avrebbero puntato per il coraggio e la simpatia, era andato a raggiungere il cugino, suicidandosi, pensando di essere solamente un traditore. 

Uno stralcio del romanzo Il Partigiano che conobbe il futuro

mercoledì 12 agosto 2015

Sei mesi, di Lauretta Bonato

Sei mesi, la vita.
Trovarsi in una città nuova, in posti diversi con gente sconosciuta, non rientrava nei piani di Lucrezia. Lasciare la sua casa, i suoi affetti, gli amici, era stata una decisione sofferta. Ma quando l’oncologa le disse che avrebbe avuto non più di sei mesi da vivere, tutto cambiò.
Voleva ritornare nella sua terra, dove era nata. Terra che non aveva mai conosciuto perché i suoi genitori emigrarono dopo la sua nascita a Sidney, Australia.
Fu così che assieme ad Alex, suo compagno da una vita, decise di trasferirsi in Italia. Affittò sulle colline liguri una “casetta fatta di pietre e fiori”, come la chiamò lei, appena la vide.
Subito se ne innamorò. Il panorama dalla collina era di una bellezza straordinaria. La casa si affacciava su un promontorio a picco sul mare. Dal giardino davanti casa lei vedeva, ogni mattino, l’alba di un nuovo giorno.
Iniziò così quella che lei chiamò “la rinascita di vita”.
Era marzo quando arrivarono in Liguria, a San Bartolomeo. Una cittadella bella, pulita e fiorita con gente cordiale. Trovò la casa arredata con molto gusto. L’interno, come l’esterno, aveva mura fatte di pietra e i caldi tessuti color granata e oro rendevano il tutto molto accogliente. Le prime settimane le dedicarono a cercar qualcosa di più personale da vivere per la casa. Lei ed Alex andarono in giro per vie, negozietti e mercatini locali. La sua malattia in quel luogo magico, sembrò essere sparita.

Nessuno dei due voleva affrontare l’argomento, fino a quando non ce ne fosse stata l’esigenza.
Aprile portò i primi caldi, le prime foglie verdi e le fioriture di piante e fiori.  Alex le regalò una pianta di mimosa da piantare nel giardino dal quale lei continuava a vedere ogni giorno nascere il sole. Col suo impegno e le sue cure, la pianta cresceva e le regalava bottoni gialli color del sole e molto profumati.
A maggio ci fu il primo controllo. Le notizie non erano belle, ma Lucrezia con un sorriso, salutò il medico e prese per mano Alex, consapevole del suo male. Nuove pastiglie, nuove terapie non l’avrebbero salvata e, questo, lei lo sapeva.
Non avevano potuto avere figli, ma questo non impedì loro di continuare ad amarsi, anzi.  E ora, dopo quasi vent’anni, erano più innamorati che mai. Ed era questa la sofferenza più grande per Lucrezia, lasciare il suo Alex.
Conosciuto tra i libri in biblioteca e mai più lasciato andare. Il loro amore fu ostacolato da molti, soprattutto dai genitori di Alex perché lei era più “vecchia”. Vecchia… avevano undici anni di differenza, ma per Alex non fu mai un problema. E ora lei ne aveva cinquantatré e il suo amore era ancora giovane. Per questo una sera Lucrezia, fra le lacrime di entrambi, gli fece promettere che non l’avrebbe mai rimpianta ma, per l’amore che li  univa, avrebbe dovuto rifarsi una vita. E Alex promise a cuore spaccato.

Giugno. Il caldo incominciò a far da padrone.
Le passeggiate lungo il mare divennero un’abitudine giornaliera. Assaporare l’odore del mare, godere della musica prodotta dalle onde che s’infrangevano sugli scogli, era per loro sublime. Niente era più bello.
Mano nella mano percorrevano chilometri sul litorale, per poi tornare verso sera a casa a preparare insieme la cena e guardare il sole alto nel cielo.
Luglio portò i vacanzieri. Famiglie con ragazzi, bambini che giocavano sulla spiaggia. Ombrelloni di tutti i colori decoravano il lido. Invasioni di turisti dalle facce felici di trovarsi sulla spiaggia e farsi cullare dal mare.
Il loro piccolo mondo stava diventando sempre più piccolo, ma a Lucrezia e Alex non dava fastidio. Avrebbero sempre voluto dei figli, da amare, coccolare e viziare ma, come diceva lei «Il buon Dio vuol tenere per sé gli angeli più belli». E una sera la strada del ritorno incominciò a diventare pesante. Ma Lucrezia fece finta di nulla e non lo disse ad Alex.
Agosto arrivò silenzioso con le sue giornate lunghe e calde, che facevano impazzire i vacanzieri.  A volte, pur recandosi molto presto in spiaggia, la trovavano già invasa da teli distesi a segnare il posto, il diritto di un pezzetto di spiaggia, che si aggiudicava chi arrivava prima.
Quel pensiero di “diritto”, la faceva sorridere stringendosi sempre più a lui, il suo amore. A lei non serviva avere lo spazio per distendersi al sole. Lei voleva soltanto stare fra le sue braccia. Soprattutto ora che sentiva la vita scivolarle via.
Continuava a non dirlo ad Alex, di come si sentiva male al risveglio e della stanchezza che l’assaliva alla sera. Lui, il suo uomo, il suo amore, la sua vita stessa, lo aveva già intuito ma non glielo avrebbe mai fatto capire per non farla rattristare al pensiero della malattia.
Non le avrebbe mai detto che di notte mentre lei dormiva fra le sue braccia, lui restava a guardarla e piangeva in silenzio.                                                                                                                     Fuochi d’artificio e festa fino a notte fonda per il quindici di agosto, ma loro non scesero in paese per festeggiare. Lucrezia stava male.
«È solo un leggero mal di testa dovuto al troppo sole» si giustificò lei, «e andare su e giù incomincia a farmi sentire gli anni» continuò sorridendo. Lui le prese le mani, gliele baciò e la strinse forte al suo petto.
«Sistemo due poltrone in giardino. Guarderemo i fuochi da qua». E fino alla fine di agosto, fu così che trascorsero le loro serate.
L’inizio di settembre si fece sentire con le prime piogge. In spiaggia di ombrelloni, ne erano rimasti pochi.
Questo era il mese dei nonni coi nipotini, degli anziani che non amavano la confusione estiva. Che assaporavano quel mese che segnava la fine dell’estate, in tutta la sua bellezza. Le giornate incominciarono ad accorciarsi, pur restando sempre belle ed assolate anche quando una leggera pioggerella si affacciava sul mare.
Anche le loro passeggiate si fecero meno frequenti.
«Preferisco godermi dal giardino il fresco e il panorama» diceva lei, «ho già preso sole a sufficienza» e sorrideva.
Al mattino dopo colazione, Alex scendeva in paese a far la spesa e, al suo ritorno, la trovava in giardino appisolata sulla poltrona con un libro in mano. Allora lui preparava il pranzo e sistemava il pasto su di un tavolino vicino a lei, non la svegliava per non farla affaticare e aspettava il suo risveglio per pranzare insieme.
Nel pomeriggio parlavano di poesie, di libri e dei loro ricordi fino a sera dove Alex, sempre col suo amore, continuava a coccolarla. E con questa scusa, la prendeva fra le braccia e la portava nel loro letto e l’amava.
Una sera d’estate di settembre, dopo una giornata d’amore e di sole, Alex la trovò addormentata sulla poltrona per l’ultima volta. Aveva il sorriso sulle labbra. Lui era appena tornato da una passeggiata. Aveva il suo libro in mano, ma guardando bene, Alex si accorse che non era un libro qualsiasi. Era scritto da lei, il suo amore.
L’ultimo regalo che Lucrezia gli fece. Il racconto della loro vita d’amore che iniziava così:
Ti ho voluto bene, e dopo ti ho amato. Alla fine mi sono innamorata. Si perché si può amare senza essere innamorati. Si possono amare i figli, la vita, il sole.
Ma io di te sono sempre stata innamorata e perciò, ti ho amato tanto. Ed è proprio per questo amore voluto e condiviso con te… ti lascio libero. Libero di amare e di innamorarti ancora. Me l’ hai promesso, e ora devi vivere. Vivi con tutto l’amore che hai dentro di te.   


                                                                                            Ti amo.