Il nonno
riposava all’ombra fresca e profumata del pergolato. Le mani, nodose e torte
dall’artrite, pendevano mollemente dal bordo del bracciolo della sedia a
rotelle.
Dalla cucina
che affacciava sul cortile proveniva il familiare rumore delle antine della
credenza aperte e poi richiuse, il movimento dei tegami e lo scorrere
dell’acqua nel lavandino.
Mentre
preparava cena, sua figlia Emma, guardò verso il giardino e accarezzò con lo
sguardo le tre figure silenziose sedute lì fuori: i genitori anziani e la sua
bimba di sette anni.
Suo padre
aveva il capo leggermente piegato da un lato: lo sguardo spento seguiva il
ronzare sommesso delle api intente a bottinare tra i fiori del glicine. Seduta
accanto a lui stava la nonna, odorosa lei stessa come il sacchettino di lavanda
posto nel cesto del cucito che teneva in grembo; era china su un rammendo che
di tanto in tanto posava per carezzare ora la mano avvizzita del marito, ora la
pelle liscia e tenera delle gambe della nipotina, allungata sulla sdraio,
spensierata, come lo si può essere solo a quelle età, intenta a soffiare nelle
bolle di sapone.
D’un tratto,
gli occhi grigio azzurri del nonno, a dispetto dell’Alzheimer incalzante,
ripresero colore e vivacità e si rivolsero alla moglie porgendole una richiesta
silenziosa.
Erano passate
già alcune settimane da quando aveva pronunciato l’ultima parola, “Tilde”, la
sua compagna da sempre, per poi ritirarsi in un suo mondo muto. Ogni giorno più
lontano dalla realtà, cercava caparbiamente di aggrapparsi ad essa attraverso
mozziconi di ricordi adesi l’uno all’altro come le bolle di sapone di Alice:
legame delicato, inconsistente, pronto ad evaporare come un sogno al primo
alito di vento.
Intanto, Alice
volse il capo verso casa e gridò:
«Mamma!
Abbiamo fame!»
«Ma è quasi
ora di cena» contestò la mamma dalla cucina, «comunque, ok, vi porto qualcosa».
Pochi minuti
dopo arrivò con succo di frutta e paste di meliga. Con l’angolo del grembiule pulì
uno spazio sul tavolo da giardino, per posare spuntino e bicchieri, dopo aver
spostato con il gomito le cesoie, alcuni bastoncini di bambù e i guanti da
giardinaggio rimasti lì dimenticati.
Il nonno
allungò la mano verso il tavolo e Tilde, premurosamente, gli porse il bicchiere
ma lui fece cenno di no col capo.
«Vuoi un
biscotto?». Ma ancora un no, deciso, infastidito.
«Cosa vuoi
nonnino?» disse Alice e lui con le dita indicò le cannette di bambù.
«Queste?»
chiese la bambina porgendogliele. Il nonno sorrise, poi si tese verso il cesto
da cucito e prese forbici e filo: dispose le bacchette a croce e cercò di
legarle maldestramente.
Tilde gli
chiese con dolcezza cosa volesse fare e lui, inaspettatamente, pronunciò a
fatica: «Carta».
A quella
parola inattesa, Alice balzò in piedi, mentre la nonna, ora in piedi anche lei,
euforicamente, quasi gridava: «Un aquilone! Vuoi fare un aquilone!».
Il viso del
nonno si accese in un sorriso.
«Sai che il
nonno» disse Tilde alla bimba, «che ha fatto il maestro per tanti anni,
insegnava ai suoi allievi la geometria costruendo aquiloni? Con la carta
spiegava come son fatti i triangoli e i rombi e anche gli angoli retti! Li
studierai anche tu più avanti. Ora vai dalla mamma e chiedile, per piacere,
carta sottile, come quella che c’è nelle scatole delle scarpe, e prendi anche
lo scotch, la pinzatrice e anche i tuoi pennarelli».
Alice schizzò
verso casa per tornare poco dopo con tutto il materiale.
La nonna si
mise al lavoro: il nonno annuiva; la bimba un po’ aiutava, un po’ saltellava
elettrizzata. In un niente, un grande aquilone, con i quadranti decorati da Alice
e la coda di anelli di carta, fu pronto.

«Mamma! Corri!
Vieni a vedere i triangoli volanti!» gridava la bambina battendo le mani.
In cielo,
l’aquilone colorato inseguiva nuvole rosa e voli di cornacchie dirette ai
posatoi notturni.
Sul tavolo
sotto il pergolato brillavano leggermente le impronte iridescenti delle bolle
di sapone.
Il nonno
guardò in alto, lontano e rise.
Nessun commento:
Posta un commento