La
scuola elementare di Cegno, liberata dalle grida allegre degli alunni, si
preparava ad ospitare le grida lancinanti dei partigiani che subivano botte e
torture. Li portavano lì da tutta la valle, man mano che venivano catturati. Erano
ammucchiati in due classi al primo piano. Quando quei ragazzi furono messi in
fila a spintonate e a calci per essere trascinati fuori, alcuni di loro
pensarono finalmente di essere fucilati ponendo così fine a quella orribile
sofferenza. Altri invece, avendo subito un po’ meno atrocità, si illusero a
momenti alterni, che sarebbero stati liberati.
Uno
solo fu liberato.
Luigi
faceva il meccanico della manutenzione alla polveriera di fondovalle, era stato
esentato dal servizio militare, in quanto chi lavorava in quel tipo di aziende,
era già militarizzato. Troppo spudoratamente in fabbrica si era lasciato andare
a dure critiche contro il caporeparto, fascista di comodo locale. Gli arrivò
all’orecchio che il suo capo lo aveva denunciato come disfattista ed
antifascista. Fece appena in tempo a rifugiarsi sulle vicine montagne.
Raggiunse “il Rosso” di cui era cugino. Luigi non sapeva quasi nulla, giusto il
nome del comandante e lo disse:
«Franco,
si chiama Franco, lo chiamano comandante Franco e sta al Chargé».
Poi
un pianto a dirotto, inconsolabile. Lo avevano torturato come gli altri, ed
avevano continuato anche dopo la rivelazione del nome e del luogo, pensando che
potesse sapere altro. Quando capirono che nulla di più avrebbero potuto
estirpare da quel corpo martoriato, gli dissero sorridendo:
«Bravo
ti sei guadagnato la libertà, hai visto che a parlare c’è sempre da guadagnare!».
Continuarono
a sbeffeggiarlo per un po’, ogni tanto qualcuno passava nel corridoio dove
Luigi era seduto su di una panca di legno scuro, scuro come gli ematomi che gli
coprivano il viso sotto un casco di capelli arruffati e scuri, così come le mani tumefatte, la destra senza unghie,
gli risparmiarono quella del pollice, forse per caso. Ora per un nome, per un
solo nome era diventato un infame traditore, non veniva neanche più controllato
per timore che fuggisse.
Ritornò
un ufficiale:
«Bene
Luigi, vai pure a casa, quella è la porta, accomodati, prima che cambi idea».
L’ufficiale
gli aprì la mano e gli mise nel palmo le unghie strappate. Quasi
automaticamente chiuse la mano trattenendo quei cimeli che gli appartenevano.
Luigi poi divenne terreo e biascicò:
«Ma
come qui fuori, adesso? Proprio qui, così capiranno tutti che ho parlato!».
Sotto
una frangia di capelli scuri sporchi e umidi i suoi occhi spalancati
denunciavano terrore.
«Beh,
questi sono affari tuoi. Noi ti liberiamo, siamo di parola. Non lo sapevi che i
partigiani sono cattivi. Che uccidono i traditori. Vedi noi siamo migliori,
assai più bravi! Infatti ti abbiamo restituito persino le tue unghie» disse
beffardo, quello che le aveva strappate.
Gli
uomini del gruppo in partenza, ancora
non avevano idea a quale gradino di abiezione umana stavano assurgendo.
Salirono in ventisei sul camion. Percorsero un breve viaggio a monte, verso
Forno di Cegno. Giunti che furono, vennero fatti smontare in malo modo. Quei
ragazzi si sentirono dei morti viventi, con liberazione i più pessimisti, e con
terrore i più ottimisti. I rami intorno a loro proponevano delle gemme che un
freddo di ritorno aveva congelato, molte di loro non ce l’avrebbero fatta,
qualcuna, poche sarebbero sopravvissute, ma solo per un evento meteorologico,
non per la ferocia umana, che invece si apprestavano a subire quei ventisei
esseri umani. Ventisei vite in procinto di diventare ventisei morti. Nulla e
nessuno poteva salvarli. Tutti sperarono in un rinsavimento umanitario degli
ufficiali nazisti e fascisti, che invece fecero a gara, per dimostrare di
essere feroci e duri, vinsero la gara per un soffio gli autoctoni italiani.
Vinsero alla fine del tormento a cui avevano sottoposto quei giovani ormai già
carne da macello.
Mentre
Luigi si trascinava per la strade di Cegno, con un piede e una mano senza
unghie, ogni volta che spostava il piede destro avanti, per portarsi verso casa
sua, irraggiungibile in quelle condizioni, un dolore gli attraversava il
cervello. Un altro dolore meno sanguinolento gli uccideva il cuore, ed era quello
di avere tradito, di non avercela fatta a sopportare il pur atroce dolore.
Eppure Luigi camminava lo stesso, le lacrime uscivano senza che lo volesse, e
quando il dolore fisico sembrava lenirsi, riappariva quello mentale. E intanto
senza rendersi conto continuava a stringere le sue unghie ancora intrise del
sangue rappreso. Luigi, mise le braccia conserte, ad estrema difesa di se
stesso, e questo gli ricordò, quando bambino, si poneva nella stessa posizione
perché genitori gliele suonavano per qualche marachella. Si commiserò, avrebbe
dato la vita per un atto di comprensione e di affetto, da parte di chiunque.
Era solo, maledettamente solo, sicuramente la mamma gli avrebbe elargito una
carezza, forse dicendogli:
«O
por al me cit, cosa a l’an fate?».
Ogni
tanto quasi a fil di voce sussurrava:
«Mamma,
mamma, sono un disgraziato, non mi vorrai più neanche tu».
Le
lacrime sgorgavano con ancora più forza di prima, la fronte rilasciava gocce di
sudore che si mescolavano alle prime. Quell’incredibile odissea, si protrasse
per poco più di un’ora. Luigi, giunse infine a Pontelegno, dove vi era il ponte
sul Belleva, il più alto della valle, la sua casa era ancora molto, troppo
lontana. Il giovane realizzò in un attimo che la sua casa non era quella
lontana, dove forse la mamma lo pensava sorridendo. La sua casa ora era la
morte, quella che raggiunse un attimo dopo essersi lanciato dalla spalletta ed
essersi fracassato la testa contro le rocce sottostanti. “Il Rosso” che aveva l’aspetto del traditore per la
scarsa capacità di rapportarsi agli altri, era morto il giorno prima salvando
parecchi compagni, quasi da eroe. Luigi, su cui tutti avrebbero puntato per il
coraggio e la simpatia, era andato a raggiungere il cugino, suicidandosi,
pensando di essere solamente un traditore.
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