Lo
sbirciò da dietro le spesse lenti che ormai era costretta a portare. A essere
onesti, non lo trovava così bello da molto, molto tempo, non ricordava nemmeno
più da quando.
Forse
era stata la volta che Marilù li aveva scarrozzati per la campagna con l'auto
decappottabile. Rivedeva il cielo terso
di aprile chiazzato di poche piccole nuvole che si inseguivano sopra le loro
teste spettinate dal vento. Erano scesi nei pressi di un prato punteggiato di
fiori e lui si era incamminato a grandi falcate in mezzo all’erba che gli
saliva fin quasi a mezza coscia. Mentre Marilù stendeva la tovaglia a scacchi
bianca e rossa e vi riponeva sopra il cesto di vimini pieno di ogni ben di Dio,
con la coda dell'occhio lei aveva visto le spalle squadrate di lui spuntare tra i fili
d'erba e si era chiesta cosa diavolo ci fosse là in mezzo per fargli sfidare le
ginocchia scricchiolanti. Poi se lo era ritrovato davanti con la manona
screpolata che le porgeva ranuncoli e bocche di leone sistemati in un bel mazzo
ordinato. Le aveva fatto tenerezza vederlo grande e grosso, con la testa canuta
e gli occhi un po' appannati, sfoderare un sorriso pieno di promesse, come se
tutta l'acqua passata sotto i ponti in quei decenni trascorsi insieme non
avesse attenuato proprio niente, semmai solo un po’ addolcito.
O
era stato quando il loro Tommy li aveva lasciati una fredda giornata di
novembre. Quell’inverno e nei mesi successivi, mentre lei si aggirava per casa
come un fantasma abbracciato al suo dolore, lui lottava per mantenere senno e
pazienza, come un equilibrista a mani nude su una fune a dieci metri da
terra lotta contro la legge di gravità, ben
conscio che un'eventuale caduta avrebbe significato la fine per tutti e due.
Quando finalmente era riuscita a sporgersi dal pozzo della sua disperazione lo
aveva trovato lì ad aspettarla, smagrito, stanco, con gli occhi buoni colmi di
sollievo. E lo aveva scoperto infinitamente bello, come se il dolore gli avesse
grattato via la superficie, per rivelarne l'anima.
Oppure
la volta della sua unica colossale sbornia a casa di Pitt. Lui, sempre così
parsimonioso di colpi di testa, quella sera aveva bevuto una tale quantità di
Franciacorta, più un paio di bicchierini di Scotch, che a un certo punto Pitt e
suo figlio lo avevano dovuto infilare in macchina di peso. E lei che non amava
guidare era stata costretta a sfidare al volante quella trentina di chilometri,
con la notte che si infilava dai finestrini inghiottendo tutto tranne loro due.
Era stata l’unica volta in tanti anni che si era presa cura di lui. Una volta a
casa sani e salvi, dopo averlo spogliato e sistemato sotto le lenzuola
chiamandolo “vecchio ubriacone”, gli si era accoccolata accanto vestita di
tutto punto e allora lui si era messo a piangere come un vitello e non la
finiva più di tirare su col naso cercando la sua mano sopra il copriletto,
mentre lei gli pizzicava le guance tragicomiche inondate di lacrime. Avevano
dormito così, lui in canottiera e mutande e lei in tailleur e scarpe col tacco,
proprio come due divi in una commedia americana.
E
ora eccolo lì, composto e limpido, come sempre attento a non darle dispiaceri.
Fino alla fine. Appena si era reso conto che la sua testa non riusciva più a
metterla al centro di ogni pensiero aveva preferito andarsene e si era addormentato,
quietamente, per non turbarla oltre il dovuto. Lei aveva mandato tutti via, non aveva voluto sentire ragioni.
Quella sarebbe stata l’ultima notte con lui ed era solo sua.
Gabriella Tessa è insegnante e vive a Giaveno
Ha collaborato alla raccolta di racconti Venti di montagna, Echos edizioni
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