Ersilia
si asciugò le mani nel canovaccio di tela e si sedette al tavolo della cucina.
Il
sole del pomeriggio disegnava righe ondulate sulle tendine.
Era
ora di cominciare a fare gli scatoloni, lo sapeva. Il giorno dopo all’agenzia
ci sarebbe stato il compromesso per la vendita della casa e a fine mese l’atto
dal notaio. Poi, la casa di riposo.
Chiuse
gli occhi e pensò ai suoi figli, Valeria e Andrea.
«Dai,
mamma, vedrai che lì ti troverai bene. Verremo a trovarti ogni settimana,
promesso! Qui non ci puoi più stare, lo capisci anche tu, vero? Da quando non
c’è più papà è pericoloso. Senza ascensore, poi! Eddai, mamma, schiodati! Non
vorrai mica che la gente pensi che vuoi più bene alla casa che ai tuoi figli?».
Le
sembrava di sentirle, le voci dei suoi ragazzi, quella ininterrotta e nervosa
di Valeria, quella rada e asciutta di Andrea. Così diversi tra di loro, così
compatti nel convincerla a vendere la casa. Avevano bisogno dei suoi soldi per
le loro nuove vite. Era giusto così.
Aprì
gli occhi e la casa la salutò. La macchia di umido sul soffitto, fiori di
ceramica alle pareti, la macchina da
cucire nell’angolo. Mille oggetti, mille ricordi. Provò ad ascoltare: la radio
lì vicina, sempre accesa per le sue adorate canzoni, da sopra i tacchetti di
Rosa pronta ad uscire per il suo giro, fuori le voci dei ragazzi scesi al
capolinea dell’autobus. Voci di una casa di borgata: Dove l’aria è popolare, è più facile sognare che guardare in faccia la
realtà.
Cercò
di alzarsi ma il mal di schiena si fece subito sentire con una fitta che le
strappò un lamento: dovette risedersi. Avevano ragione i ragazzi, lì non ce la
poteva più fare: le amiche mica la aiutavano a far le scale, la spesa non
veniva su da sola, e se poi le fosse capitato di star male, Dio mio che cosa
sarebbe successo, loro non potevano certo telefonare tutti i giorni!
Ersilia
passò la mano sulla tovaglia del tavolo.
La cerata a limoni. Ricordava ancora quando l’aveva comprata, tanti anni prima,
al mercato di Tor Vergata. Splendidi limoni gialli con le foglie verdi avevano
rallegrato la cucina, e non l’aveva più voluta cambiare, neanche quando il
tempo aveva cominciato a lasciare i suoi segni; era diventata un po’ ruvida e
appiccicosa, eppure lei l’aveva lavata tutti i giorni per poi appoggiarci sopra
il suo lavoro da sarta. Aveva dovuto smettere quando
l’operazione alla cataratta era andata male, ma le sue signore continuavano a
venirla a trovare lo stesso, per il buon profumo che c’era nella casa,
dicevano, profumo di pulito e di caffè.
Si
guardò intorno e decise: doveva buttare via qualcosa, non aveva senso portare
troppe cianfrusaglie nel garage che avevano affittato per metterci la roba. Con
un gesto rabbioso strappò via la tovaglia e la lasciò cadere a terra. Rimase
stupita a guardare il piano di legno del tavolo: la cerata l’aveva preservato
benissimo, il colore era ancora vivo e chiaro come quando lei e Marcello l’avevano
comprato, infiniti anni prima. Però c’erano dei segni. Si avvicinò per guardare
più da vicino e passò da un sorriso all’altro, scoprendo le tracce di una vita
intera: l’adesivo della Barbie incollato di nascosto da Valeria, una macchia di
vino filtrato attraverso un taglio fatto da Marcello, forse in uno dei suoi
attacchi d’ira, il piccolo cerchio nero di una sigaretta, sicuramente un
dispetto di Andrea quando a tredici anni aveva cominciato a fumare. Qualcosa in un
angolo; si avvicinò quasi a sfiorare il tavolo con il viso. Una frase scritta a
biro. Ersilia si aggiustò gli occhiali. Je
ne t’oublierai jamais, mon amour e due lettere intrecciate: E R
L’ondata
dei ricordi le piombò addosso all’improvviso, lasciandola senza fiato. Roland.
Il suo amore. Il pensiero di ogni sera per tutte le sere. In un attimo tornò ai
quei giorni di tanti anni prima. Allora i bambini erano piccoli, e lui era il
padre di una loro compagna di classe sempre malata che si era rivolto a lei per
i compiti:
«Abbia
pazienza, signora, sono un ragazzo padre!».
Quella
sua autoironia l’aveva conquistata. Quanto avevano parlato! Per quanto tempo
interminabile erano rimasti a guardarsi negli occhi, lottando tra quello che
volevano e quello che non si poteva.
«Per
me il tuo matrimonio è un muro invalicabile». Per lei invece erano stati i
bambini: non avrebbe mai potuto portarli via al padre, neppure ad un padre così.
E quando a Roland era scaduto il contratto come lettore di francese al liceo di
periferia in cui era stato assunto per un anno, avevano deciso insieme che non
si sarebbero più visti. Si erano regalati solo un’ultima, intera giornata in centro, a Roma; i baci a
Villa Borghese, gli sguardi incatenati, l’ultima frase:
«Non
ti dimenticherò mai. E i ricordi, lo sai, nella vita sono tutto». Quell’ultimo
bacio, nel disperato tentativo di fermare il tempo.
Si
alzò senza ascoltare il dolore alla schiena e andò al telefono:
«Pronto?
Sì, signorina, volevo dirle che avrei… ho cambiato idea. Proprio così, non
vendo più».
Roland
era tornato da lei, per aiutarla a prendere la decisione giusta. Fino alla
fine.
Daniela Negro è insegnante e vive a Giaveno.
Ha collaborato alla raccolta Venti di montagna, Echos edizioni
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