Ero il figlio di un dio
sbadato che mi ha messo nel corpo sbagliato; i miei primi trenta anni li ho
passati a strisciare lungo i muri, come fanno i topi per non essere scoperti.
Ho trascorso la vita a
cercarmi, poi nel tumulto di una notte ho capito che io c'ero.
Il fumo s'innalza davanti al mio occhio, che scruta la notte
attraverso la vetrata del pronto soccorso.
L'altro occhio é coperto dalla borsa del ghiaccio che vi tengo
premuta.
Stringo il bicchiere di carta, caldo del tè che sto
sorseggiando.
Sono sotto osservazione da ieri sera, quando un'ambulanza mi ha
raccolta, coperta di sangue da far schifo, in una strada ben frequentata: ciò
non é bastato a fermare un gruppetto di ignoti dal darmele di santa ragione.
Nessun testimone, per me.
Sono stata fortunata, non hanno riscontrato lesioni gravi, solo
qualche taglio e tanti lividi.
Appena farà giorno, se cammino dritta e non vomito, mi
dimetteranno.
Mi é andata bene per essere la prima volta che le prendo, fa male,
molto, ma le ferite si riassorbiranno.
Di solito vengo aggredita in metro, al mercato, negli ospedali,
nei bar, una volta persino in banca dal cassiere: si tratta perlopiù di sguardi
incagliati, allusioni, derisioni. Questi sono lividi invisibili, ma bruciano
forte dentro l'anima: é un veleno che s'insinua nella carne, come la gramigna,
talmente profonda da non scavare mai abbastanza per sradicarla.
Questo posto é stata per un po' la mia seconda casa: so dove si
trovano il bagno, la mensa, l'accoglienza e soprattutto il reparto macelleria.
Quando vi sono entrato sei anni fa, di nome facevo Tommaso.
Mi hanno intrattenuto con lunghe attese, cure, psicoanalisi e
masticato per benino fino al giorno dell'intervento. Adesso che mi é stata
"concessa la libertà" sono diventata un boccone troppo amaro da
digerire.
Avvicino il bicchiere al vetro e nell'alone del vapore che lo
imperla, traccio col dito il nome che ho sempre sognato per me, oggi mi chiamo
Aurora.
Sono fiera di essermi pagata gli interventi col duro lavoro,
senza prostituirmi, alla faccia di questo sistema subdolo che si finge
tollerante mentre affonda la lama. Io sono un meccanismo difettoso che va
tenuto dentro il filo spinato: non sanno come aggiustarmi.
Se mi osservi noterai il caos: ho un rossetto vistoso, spalle
larghe, mascella pronunciata e fra le gambe una voragine con su scritto
"lavori in corso".
Sono un cantiere ancora aperto: sebbene abbia concluso gli
interventi con il corpo, non ho chiuso i conti con la mente.
Il mio volto ha mantenuto i tratti mascolini nonostante la cura
di ormoni; mi é stata consigliata una soluzione di chirurgia estetica, ma non
possono obbligarmi. L'ultimo ricordo di Tommaso non me lo strapperanno: ci ho
litigato sino allo sfinimento, però gli ho voluto bene e nessuno può
costringermi a dimenticarlo.
Torno a sedermi, la testa vortica e penso a mia madre.
La ricordo intenta a cucinare col suo grembiule a fiori e un
fazzoletto a trattenere i riccioli.
Un giorno misi i suoi vestii e il suo rossetto, e quando quel
deficiente di mio fratello fece la spia, lei rimase in silenzio senza
guardarmi, e mi chiuse in camera senza la cena.
Era troppo arguta per non comprendere ciò che ero, però continuò
a fingere di non vedermi. Tuttavia la misi in imbarazzo un'infinità di volte e
mi perdonò sempre.
Ero piccolo, non capivo il disagio che mi straziava e quando da
grande provai a parlarne fui escluso, emarginato.
Mi schernivano quando giocavo a calcio, ammiravo le bambine
pettinare le bambole, avrei voluto vivere serenamente la mia emotività e alla
fine ho imparato a fingere.
Mi sono scavalcato, violentato in nome di compagnie effimere;
quando fui abbastanza maturo e logoro da capire che sarei comunque rimasto
solo, esplosi.
E ferii mia madre, obbligandola a guardarmi per quello che sono.
Quella volta non ci fu perdono.
Verso le quattro una coppia di anziani varca la soglia del
pronto soccorso.
Lui é sul lettino con una flebo inserita nel braccio. Bisbiglia
alla moglie per tranquillizzarla.
Attendono che l'operatore si allontani per sbrigare le pratiche,
poi si danno timidamente la mano.
Lei ne accarezza il dorso, sorride dolcemente. E' minuta, ma c'é
una forza immensa nello sguardo basso dal contegno dignitoso.
Lui sussurra parole in dialetto, non le capisco, ma sono quiete,
ancora innamorate.
Non riesco a staccare lo sguardo, vorrei tanto far parte del
quadro.
Ad un tratto l'operatore torna. Staccano le mani a fatica e lei
gli sfiora la guancia con un bacio.
Rimaniamole sole. Scambiamo un saluto e mi si avvicina.
" Cosa le é capitato signora? "
La osservo perplessa e penso che la donna abbia problemi di
vista, ma l'accontento e racconto.
Ascolta preoccupata, si porta la mano alla bocca, poi prende la
mia e sorride.
Mi tiene compagnia parlandomi della sua vita, di come si tiene
un'orto, si fa il pane, come si allevano le capre.
Mi mostra una ricetta che custodisce gelosamente in borsa e ne
legge gli ingredienti, allora capisco che non ha bisogno di occhiali: mi ha
vista, gliene sono grata e mi sento viva.
Ho la beata sensazione di essere tornata bambina, vicina a mia
madre.
Quando manca un quarto alle sei un dottore esce dalla porta, la
cerca: il suo volto é un libro aperto.
La sento irrigidirsi, non fa domande, attende rassegnata le
parole del medico.
Si alza, mi osserva commossa mentre mordo un labbro per
nascondere le lacrime. Il suo sguardo ha oltrepassato la speranza.
Mi regala un bacio sulla fronte, io le stringo convulsamente la
mano, quel dono inatteso fa vibrare la mia speranza.
Rimango sola, frastornata.
Rivivo le loro carezze, i sussurri, l'ultimo sguardo
consapevole, accolto con tale dignità da farmi scordare tutte le mie ferite.
E di farmi vergognare del tempo perso a esitare.
Nessuno a questo mondo é giusto o sbagliato. Siamo arabe fenici
nella vita che ci attraversa: risorgiamo ogni dì liberi di essere, al di là dei
pregiudizi.
Oltre il vetro guardo sorgere un nuovo giorno e mi vedo, proprio
lì, tra il buio della notte alle spalle e l'alba dinanzi: io ci sono, io sono
l'Aurora.
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