La
XXIX edizione del Salone del Libro di Torino si è conclusa ormai da una
settimana. Cosa mi resta di quei giorni intensi, pieni? Sicuramente l’emozione
di essere stata, per la prima volta, dall’altra parte di un bancone, di avere
avuto appeso al collo il Badge di Espositore.
Con
la Echos Edizioni abbiamo vissuto il momento in cui il Salone non era altro che
una serie di stand vuoti, un guscio di sostegni ignifughi, di banchi lisci e
lucidi, di moquette rivestita di cellophane per evitare i solchi dei carrelli
colmi di scatoloni.
Entrando
dal portone Espositori, abbiamo
respirato un’aria da “dietro le quinte”, abbiamo scaricato centinaia di volumi
che, nei cinque giorni seguenti, sono stati sfogliati, letti, acquistati e
rimpiazzati da copie fresche di ristampa.
Le
emozioni di quei giorni sono andate al di là della mia immaginazione; il mio
stupore non è stato quello di assistere alla kermesse libraria più importante
dell’anno da un nuovo punto di vista, ma di scoprirne lati imprevedibili, che
tenterò qui di elencare, certa di tralasciarne qualcuno di memorabile, che
resterà comunque nei miei ricordi.
Innanzitutto
il contatto diretto tra gli entusiasti autori Echos e il pubblico, pronto all’ascolto
e curioso di scoprire nuove trame e nuovi stili.
Gli
incontri con altri editori, nuovissimi, emergenti o storici, come la centenaria
Giunti, fondata nel 1497. La grave quantità di sedie a rotelle, di anziani e di
giovanissimi, che percorrono agevolmente i corridoi, aiutati dalle inesistenti
barriere architettoniche e invogliati da attività come la lettura e l’ascolto,
facili e appaganti.
Gli
incontri con gli scrittori, non nelle sale superilluminate, seduti ad una
cattedra, ma tranquillamente a passeggio per gli stand, sicuri di essere magari
riconosciuti ma non importunati da chi è in visita e che, come loro, forse sta
soltanto cercando un’atmosfera. Antonio Manzini che passa davanti al mio stand
e risponde al mio saluto (pensando: “ma chi diavolo è questa?”) con un cenno
del capo. Massimo Tallone che mi porta allo stand della Golem per presentarmi
qualcuno; io che lo seguo dubbiosa e lo vedo accennare ad un signore anziano,
seduto dietro il banco: «Ti presento Pupi Avati», e io tendo la mano incapace
di dire altro che «Piacere, Maria Teresa».
La
presentazione della nuovissima, eppure già storica, casa editrice La nave di
Teseo, con il grande assente Umberto Eco, ospite d’onore scomparso quando tutto
era già stato organizzato.
Giovanni
Allevi che, con il suo solito fare ridanciano, al limite dell’assurdo, risponde
alle domande nello stand della Rai, davanti ad una folla curiosa, in attesa di
farsi autografare il suo libro.
La
piacevolezza delle code educate e tranquille, senza sorpassi o spintoni, di chi
attende di raggiungere la porta di una grande sala, sapendo che forse non ci
sarà più spazio.
Certo,
non è stato tutt’oro, ci sono stati momenti meno felici, ma si sono persi e non
li ricorderò.
Il
momento più bello, però, è stato a fine Salone. I portoni sono chiusi, la folla
è uscita, gli stand sono ormai mezzi vuoti e i carrelli colmi di scatoloni
ricominciano a varcare in senso inverso il portone. Attraverso il corridoio e
mi affaccio allo stand della Sellerio, che è davanti al nostro. Chissà se mi
vendono l’ultimo di Malvaldi fuori tempo massimo? Chiedo al commesso che sta
inscatolando quei titoli; lui si alza, ed è proprio Malvaldi.
«Se
mi fermo mi addormento» dice quasi per giustificarsi. Alla cassa una signora
che non lo ha riconosciuto mi chiede quale sia il più bello tra i suoi libri.
«Milioni di milioni» rispondo sicura, «l’ho già letto due volte e adesso
aspetto il seguito», concludo ammiccando verso di lui. «Devi chiedere a mia
moglie, è lei che ha inventato la trama» e ridacchia.
Sono
le undici passate, le luci si stanno spegnendo, gli stand sono tornati i gusci
vuoti che erano sei giorni fa. Siamo esausti, i nostri piedi chiedono di uscire
dalle scarpe, le schiene vogliono un letto, ma sono già certissima: sentirò molto
presto la nostalgia del Salone.
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