«Era ora che dessimo una pulita al garage!» mormora il
mio grillo parlante sollevandosi con
la mano libera la vecchia tuta consumata.
Non sono che cianfrusaglie impolverate quelle che
gettiamo dentro al grande sacco nero.
Ho assistito raramente alle partite di Marcello. Per
quieto vivere si è sempre caricato la sacca in spalla, due sere a settimana,
con la pioggia o col termostato sotto zero, per andare agli allenamenti e
raramente si è lamentato. Il calcio è uno sport che non ho mai capito, comprese
le grida dei genitori sugli spalti, che vedono in campo dei futuri Del Piero
con tanto di uccellino sulla spalla e miliardi sul conto.
Quel modo gentile che ha tutt’ora mio figlio di non
deludere il prossimo l’ha ereditato da sua nonna, non è sicuramente merito
degli insegnamenti di un allenatore.
Oggi, per esempio, avrebbe potuto girarsi dall’altra
parte e nascondersi sotto al piumone, invece ha infilato la vecchia tuta e mi
ha raggiunto in garage.
«E se posizionassimo qui un fiammifero e fuggissimo?»
L’ironia, non per vantarmi, l’ha presa da me.
«Piazziamoci direttamente una bomba, Marci. Le cose o
si fanno bene o non si fanno!»
«A che ora arriva la stordita? Potrebbe dare una mano
anche lei, non ha nemmeno cambiato la sabbia del gatto stamattina».
A casa nostra, questo è motivo di discussione da anni.
Aurora, mia figlia, è il capro espiatorio di Marcello,
colpevole per il solo fatto di essere nata dopo di lui. Di lacrime ne ha
versate tante, Aurora, alcune vere altre di coccodrillo, sopportando per anni due
genitori che si ostinavano a tenere in piedi un rapporto logorato e spento.
Pensavo di essere nel giusto, l’amore non le è mai
mancato e, a un batter di ciglia, il mondo sì è sempre inchinato davanti alla
principessa di casa. Ma a distanza di tempo mi rendo conto di quanto questo
tira e molla abbia influito sui suoi stati d’animo.
«Raga, è mezz’ora che vi chiamo al cellulare, potevate
dirmelo che eravate qua!»
Sentiamo il tonfo dello zaino su una scatola di
cartone. Aurora sfila in fretta il braccialetto e lega i suoi lunghi capelli in
uno chignon.
«Dai, questa me la ricordo! La mia casa di Hamtaro
non si butta! Perché l’avete messa qui?»
Marcello passa la successiva mezz’ora a riaprire i
sacchi neri e a convincerla che tutto non si può tenere.
«Sono vecchi oggetti, siamo noi a dare loro un
inestimabile valore. Fidati, se sono rimasti qui per più di cinque anni
significa che non ci servono!»
«Okay, ma la casa di Hamtaro… Per quando
avrò dei figli!»
«Prima dovresti imparare a tenerti un fidanzato per
più di una settimana!» la istiga suo fratello.
Aurora sa che fine può fare una relazione, per questo si
affeziona agli oggetti.
«Accidenti, va bene, teniamo la casetta!»
«E figurati se mamma non te la dava vinta!» Marcello
le lancia addosso una pallina di plastica, che lei afferra al volo.
Con una vena nostalgica rovistiamo ancora, loro
scoppiano a ridere più volte, per qualcosa che non tento neppure di
comprendere.
Li osservo, soffio l’aria stantia per fare spazio ai
pensieri: sono utile, ma non più indispensabile a questi due ranocchi che
saltellano per il garage e mi riempiono di orgoglio.
E infine lo sento, so che sta per arrivare, è il
momento della fatidica domanda:
«Quando si mangia, mamma?»
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